Ettore Catalano
A proposito di «Scrivere a destra»

L’altro Novecento

Il critico Antonio Di Grado analizza la letteratura (drammaticamente) sospesa tra fascismo e antifascismo a metà del secolo scorso. Nei referti di una tragedia collettiva c'è quel groviglio di luce e tenebra che è stato la storia d'Italia

Nello spazio necessariamente ristretto di una recensione, impossibile rendere conto esaustivamente di un libro così denso di richiami e di suggestioni come quello di Antonio Di Grado (Scrivere a destra. “Vite narrate e vite perdute nel ventennio nero”, Giulio Perrone Editore, 300 pagine, 18 Euro), un libro fluviale nel quale, quasi ad ogni passo, si rincorrono Vittorini e Sciascia, due intellettuali-scrittori che, tra tanti altri, hanno segnato gli studi e l’impegno di Antonio Di Grado e anche, in qualche modo, le mie ricerche. Così, mi limiterò a cogliere, fra i tanti possibili, quegli aspetti più vicini ai miei interessi di studio, non senza dire che troverete in quelle pagine un fiume di autori e di libri, una rassegna di scrittori noti e meno noti, le cui vite e i cui testi hanno attraversato il ventennio nero e i dibattiti culturali dei primi anni del secondo dopoguerra.

Una chiara e ineludibile esigenza solca tutto il libro: affrontare la nostra memoria irrimediabilmente “divisa” tra la condanna ferma del fascismo e la necessità, comunque, di fare i conti con quello che fu il reale dominio esercitato dal regime su moltissimi narratori e poeti che hanno operato in quei feroci venti anni, risvegliandosi poi da un torpore che li aveva resi muti o complici oppure rivendicando ragioni e passioni di quegli anni con orgogliosa pronuncia. Se il giudizio storico e morale resta inamovibilmente intatto nella condanna, al critico letterario spetta, secondo l’autore, il compito di analizzare testi senza pregiudiziali censorie e trovare in essi i segni della passione di conoscenza da cui sono nati,  anche quando si tratti di affondare l’analisi in un sistema di valori e di fedi che rivendicano il disagio o anche l’asprezza di “vite narrate e vite perdute” che in quei “miti fondanti” della loro scrittura hanno creduto con l’ingenua assolutezza dei loro anni.

L’intitolazione del libro, irriverentemente ribelle come capita spesso al mio amico Antonio, potrebbe far pensare ad altro, ma Di Grado vuole limpidamente dire che lo studioso di letteratura non propone assoluzioni e non pronuncia condanne, non officia liturgie in ossequio a nessuna chiesa, ma deve analizzare e comprendere quel grumo di sofferenza, patimento e conoscenza che configura ogni testo letterario come una sorta di risposta a domande che urgevano, in quel momento, alla coscienza di chi si trovava di fronte alla pagina vuota e davanti alla sua coscienza. Non contano, allora, dichiarazioni fede, perché tutte le fedi sono sempre un azzardo, conta sforzarsi di capire accettando, magari, la bellezza della sfida conoscitiva, perché la letteratura, come scrive Antonio Di Grado, “costruisce ponti” e non scava trincee, si cala, se è capace, nei meandri più remoti e contorti della psiche, nei moventi oscuri e nel segreto di destini che possono anche (fortuitamente o meno) biforcarsi. La citazione dantesca ed eliotiana della folla che fluisce sul London Bridge apre il capitolo (forse più arduo e impegnativo dell’appassionante ricerca) intitolato “Resistenza o resa”, nel quale il tema è quello del fascismo-antifascismo, ferita da sanare o discriminante storica da mantenere.

Cesare Pavese al confino

L’Italia non ha mai fatto i conti fino in fondo con la sua recente memoria storica, oscillando così fra una pacificazione davvero problematica, la tenace difesa di quella memoria, pur lacerante, della lotta partigiana da cui siamo nati e rozzi tentativi di imbarazzanti e strumentali “revisionismi”. Di Grado propone, ferma restando la discriminante storica tra il fascismo e la Resistenza, che il letterato possa e debba attribuirsi il difficile compito di leggere quell’impasto di purezza e di ferocia, di rabbia e di struggente confessione di impotenza che, dalle pagine di Pavese e Fenoglio (nella foto accanto al titolo), può anche rinvenirsi in chi scriveva collocandosi dall’altra parte della barricata, perché ogni guerra appare anche come una guerra civile, come affermava Cesare Pavese, dove non sempre è Caino ad uccidere Abele. Nodo difficile, me ne rendo conto, ma compito ineludibile davanti al quale mi sono trovato anche io, scrivendo di Vittorini e del suo ambiguo rapporto con le illusioni del corporativismo fascista e della contorta pietas del Pavese della Casa in collina, sbeffeggiato al limite dell’insulto per il suo tentativo di cercare di capire il senso delle morti anche di quanti si trovavano a combattere dalla parte opposta rispetto a quella della libertà.

Questo denso studio, mirabilmente scritto in una prosa che alla scientificità dell’analisi concede anche pagine di letteraria purezza, propone allo storico della letteratura un compito arduo e non rinviabile mai: leggere nei referti di una tragedia le espressioni di un groviglio di luce e tenebra, rinvenire la sciasciana «massa irredenta di umanità» che geme anche in scrittori pervicacemente avvinti alla loro convinzione fascista. I coniatori di etichette e i chierici di ogni chiesa perderanno qualche facile precetto, ma chi si intende di letteratura non farà fatica a comprendere che questo è pure il nostro difficile compito di cercatori di testi e di fedi capaci di restituire il “colore del tempo” e insieme quella compassionevole equità che ci porterà non a “giudicare” (incombenza che lasciamo volentieri ad altri) ma a “conoscere” e quindi a praticare lo scandalo  di dare voce a chi si è trovato a vivere dentro il grande garbuglio e il cuore “nero” della storia.

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