Maurizio Cucchi
Il Ceppo in tre parole /7

Attrito, Distacco, Frugale

A Maurizio Cucchi, «uno degli ultimi classici», il Premio Ceppo Pistoia Capitale della Poesia. Un riconoscimento alla carriera per un autore la cui poesia scaturisce dal confronto forte col reale. “La poesia sempre nel segno della complessità” è il titolo della lectio che terrà il 25 giugno

Maurizio Cucchi vince il Premio alla carriera Ceppo Pistoia Capitale della Poesia. Come scrive Alberto Bertoni nella motivazione «nell’attuale e composito panorama della poesia italiana contemporanea, Cucchi può considerarsi uno degli “ultimi classici”: la consapevolezza e la pienezza, tematiche e formali, contraddistinguono la sua poesia dal Disperso (1976) a Sindrome del distacco e tregua (2019); e la qualità della sua scrittura in prosa è, in particolare, mirabile nella flânerie propria della Traversata di Milano (2007)». La premiazione si svolge il 25 giugno alle 16 nel Cortile della Magnolia del Palazzo Comunale. Il Premio Internazionale Ceppo, presieduto e diretto da Paolo Fabrizio Iacuzzi, è un premio-laboratorio che mette a fuoco le radici antropologiche della letteratura, nel nome anche di Leone Piccioni, fondatore del premio (www.iltempodelceppo.it)

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Attrito
Ho sempre pensato che l’essere umano abbia bisogno di un rapporto fisico, diretto, con il reale della sua esperienza, abbia bisogno di generare una sorta di vitale attrito con l’oggetto del suo vissuto. Un attrito capace di promuovere dunque un vero rapporto materiale forte con la cosa, un rapporto in grado di sprigionare senso, nella difficoltà o nel vantaggio, nelle scintille vitali, non solo di segno positivo, s’intende, che questa condizione può creare. Un attrito che potrebbe spesso rivelarsi pressoché abrasivo, come quando muoviamo la nostra mano su una superficie ruvida, nel consapevole rischio di ferirci; ma sapendo che da quell’attrito può scaturire un senso forte, vero, del nostro esserci e del nostro concreto confrontarci col reale di cui siamo parte.Tutto questo nella consapevolezza di una presenza che è purtroppo sempre più decisa della mediazione, nelle sue molteplici forme, la mediazione che viene a interporsi tra noi e la cosa, rendendo il nostro relazionarci con l’esterno troppo vago e improprio, povero e indiretto, sostanzialmente vacuo. Dunque sottraendoci possibilità di conoscenza; e non parlo tanto di conoscenza elevata, intellettuale, ma della semplice conoscenza immediata di ciò che ogni nostro gesto può significare in rapporto con il mondo nel nostro esistere. Si tratta di una mia vecchia fissazione, già decisiva nelle poesie che avevo scritto da giovane, quando l’insorgere della mediazione, appunto, tra il soggetto e il reale, era pur avvertibile, ma che nei decenni seguenti fino ai nostri giorni è divenuto pervasivo, come oggi possiamo notare in una quotidianità dove l’attrito tra noi e il mondo tende a essere pressoché rimosso, in una falsa morbidezza del contesto, sottraendoci gran parte dell’autenticità semplice che l’esistere può offrirci e di cui soprattutto abbiamo bisogno. Beninteso, se vogliamo che il nostro anche minimo presente possieda un senso vivo, se vogliamo non venirne svuotati e continuare a “conoscere” il nostro esserci nella sua connotazione meno effimera e aleatoria.

Distacco
Distacco è una parola chiave che possiamo intendere secondo diverse opzioni. Per quanto mi riguarda, mi limiterò a tre possibili aperture, quelle che più ho avuto presenti nel corso del tempo.La prima, e più decisamente impegnativa, è quella che riguarda lo stacco verticale della mente (mi riesce troppo arduo usate la parola “spirito”) che si allontana dalla sua casa in un’avventura totale, vertiginosa e che richiama un esempio altissimo come quello del pensiero di Meister Eckhart. E i miei primi approcci al tema, in questo senso particolare e mistico, erano nati dalla scrittura di un monologo teatrale su Giovanna d’Arco, pubblicato la prima volta proprio con un titolo, per me arduo, ma che mi è rimasto caro, e cioè La luce del distacco. Ma il concetto del distacco si sposa, per quanto mi riguarda, anche con la necessità di sottrarsi alle linee dominanti di una realtà sociale che impone oggi la vile banalità di un umano esserci ridotto alla povertà dei miti del successo e del denaro, nel segno pervasivo del dominio incontrastato di homo oeconomicus, e da una cultura di mercato, che la parola poetica non può subire, da cui deve necessariamente difendersi. Non solo per la propria sopravvivenza autentica, ma per continuare a offrire un suo indispensabile esempio alternativo, fedele alla complessità della parola profonda.Terza opzione, per me decisiva da sempre, è quella del distacco come separazione e dunque allontanamento – ma certo d’altro ordine rispetto al primo che ho citato – dalla propria dimora privilegiata e dunque dall’ambito del proprio risiedere, pur transeunte e ansioso, in una protettiva presenza di affetti e amore. Distacco che così diviene, insieme, spinta verso la conoscenza più ampia della realtà esterna e profondo disagio del partire e dell’abbandono. Senso del viaggio aperto e vitale, ma al tempo stesso sofferenza nel sentirsi gettato altrove. In questo, perciò, secondo un’idea, non certo distante da una antica saggezza popolare, che configura il distacco secondo l’immagine di una inevitabilmente dolorosa prefigurazione del non esserci più. Ma solo dopo la partenza possiamo trovare la consolazione e la gioia del ritorno!

Frugale
Nessuna ipotesi di fastidiosa modestia, nessuna esortazione moralistica, ma solo il desiderio forte di poter “far fruttare ogni minimo gesto”, nei vari momenti della nostra vita, E dunque di cogliere nella sobrietà onesta del quotidiano vivere il maggior profitto autentico di senso che possa accompagnarci. «Sia frugal del ricco il pasto» è un verso di Alessandro Manzoni di cui approfitto al mio scopo, assumendo arbitrariamente quel “ricco” non già come ricco di mezzi economici, ma come ricco di autentica vita interiore. Ho usato nel titolo di un mio testo il termine “frugale” accoppiandolo a un sostantivo di difficile uso, “felicità”, dopo una ordinaria passeggiata lungo un canale, di fronte a una casetta malconcia, contornata da un modesto giardino. Lì, spiccava un tavolino bianco di metallo sul quale vedevo o credevo di vedere una bottiglia e due bicchieri, uno dei quali avrei voluto fosse il mio, l’altro della sempre amata, per un piccolo brindisi, seduti lì accanto a goderci un momento di gioia elementare, nella dolcezza di una superfluità, appunto, frugale. Ma è questa una parola che mi arriva anche dal pensiero di autori come Ivan Illich (di cui avevo tradotto in gioventù La convivialità), ma anche Serge Latouche. Un episodio di piccola quotidianità, dunque, per me ideale, che mi era stato occasione per comporre un prosimetro, nei cui dettagli ancora mi rispecchio volentieri. Ma anche in questo caso il concetto che mi porta alla sintesi della parola mi viene da lontano, cioè da antiche ossessioni gentili, legate a un’osservazione della realtà nel nostro modo di appartenerle o di farla nostra. Come in una poesia dei miei vent’anni e che diceva «accosta ogni volta con ansia al palato la cucchiaiata / e degusta lentamente, religiosamente / con atteggiamento sornione di complicità ostentata». Ecco, nella frugalità, lo stesso boccone, nella sua apparente pochezza, acquista risalto nutritivo di senso. Ed è ancora in questo atteggiamento naturale che vorrei potermi riconoscere.

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