Alberto Fraccacreta
Un nuovo saggio di Fabiana Cacciapuoti

Leopardi e l’illusione

Ne “L’Infinito e la Ginestra” l’autrice, a lungo curatrice del Fondo Leopardiano della Nazionale di Napoli, esplora con grande sensibilità interpretativa il “pensiero poetante” del recanatese, mettendone in risalto la straordinaria modernità e la passione civile

Sono diversi i modi in cui l’opera di Giacomo Leopardi è stata letta e interpretata nel corso dei decenni e, in particolare, nell’effervescente ripresa a cui stiamo assistendo, sorta soltanto da qualche tempo. Dentro tutte le prospettive suggerite via via dagli studiosi emerge, però, con inscalfibile costanza la “modernità” di Leopardi: i moti più disparati del suo animo – dalla nullità delle cose al tenue bagliore di un principio trascendente –, la tavolozza di sentimenti screziati e talora contraddittori che convivono in un unico verso, il pressoché indistricabile nesso dicotomico di avversione/passione per l’esistenza, la meticolosa analisi del dolore. Last but not least, il convincimento (de notre côté) che egli sia in sostanza, ben più di altri, nostro contemporaneo in virtù delle sue ansietà, del suo crogiolarsi con ferma lucidità nelle “illusioni”, teorizzandole, riorganizzandole in un’algida sequenza matematica, rigettandole infine senza mai poterne fare a meno. 

Alla persistenza delle “illusioni” nel sentire leopardiano è dedicato il bel saggio di Fabiana Cacciapuoti, L’Infinito e la Ginestra. Leopardi tra disincanto e illusione (Donzelli, 304 pagine, 19 euro). Cacciapuoti, specialista del settore – è stata a lungo curatrice del Fondo Leopardiano della Biblioteca Nazionale di Napoli –, riconduce la materia prima del “pensiero poetante” alla caratterizzazione ontologica dell’illudersi, ossia alla sua ineludibile naturalità (Luzi la chiamerebbe “naturalezza”); così scrive la studiosa in apertura di libro: «Leopardi afferma che l’illusione è opera della natura e non della ragione, e, proprio perché insita anche nella nostra stessa natura, non muore. Egli ne sosterrà sempre la rinascita, anche quando l’individuo ha conosciuto uno stato di disperazione, o ha sentito il nulla delle cose e il vuoto dell’esistenza. La forza dell’illusione è radicata nella natura e di conseguenza accompagna l’uomo, non solo quello naturale, ma quello dominato da una ragione crescente, che nell’epoca moderna prevale sulla natura stessa».

Con precisione dantesca – i capitoli sono nove, divisi in tre parti, si va appunto dall’Infinito alla Ginestra passando per la ribellione fatidica del 1819, le barbarie della civiltà, la religione, Plotino e Porfirio sino al paesaggio napoletano «in purissimo azzurro» – Cacciapuoti vede illuminata nei poli delle due più grandi poesie del recanatese «la capacità di conoscere la verità, eppure scegliere di credere nella virtù, di dare voce a quell’energia vitale e indomabile che consente l’empatia e l’apertura verso l’altro». Verità e virtù non si escludono vicendevolmente, benché siano posizionate in maniera agonica; e anzi proprio nel “deserto” dell’umano cresce la più segnante illusione, quella di dar forza ed effettività a valori quali l’amicizia, l’eroismo, l’amore, persino la misericordia, la “compassione”, il patire insieme che è poi il cuore dell’Iliade e la sua forma plastica più pura («l’essenza della poesia dell’Iliade risiede, dunque, in quella compassione che coinvolge il lettore moderno avvicinandolo a Ettore, non ad Achille, eroe costruito per l’antico. E Leopardi nota che nei poemi posteriori a Omero l’eroe e l’impresa felice non potevano interessare il lettore, se quell’impresa e quella felicità non appartenevano in qualche modo al lettore stesso, come Achille apparteneva ai Greci»).

Molto presto si comprende che la linea interpretativa di Cacciapuoti (nella foto) è orientata a rilevare la visione “politica” di Leopardi: il periclitante eudemonismo che permea lo Zibaldone e i Canti, ovvero quella tensione assoluta e cristallina a un’impossibile felicità, è la struttura che regge le relazioni sociali, il tessuto unificante capace di rendere possibile l’incontro con l’altro, anche quando il mondo – in senso schiettamente evangelico – è il «perpetuo nemico della virtù dell’innocenza dell’eroismo della sensibilità vera e delle azioni, della natura in somma, che è quanto dire la società» (Zibaldone 112, 2). Ovviamente, nello spettro di un tale “sistema” etico, il ruolo delle religioni e precipuamente quello del Cristianesimo – sostenuto dalla lettura dei libri di Lamennais – è tutt’altro che inutile («Il mio sistema intorno alle cose ed agli uomini […] non si oppone al Cristianesimo», Zibaldone 393,2). Qui gioca un ruolo fondamentale l’idea di primitivo, di rousseauiano bon sauvage: «Nella visione leopardiana […] l’allontanamento dell’uomo dalla natura primigenia è visto come una corruzione, un decadimento da uno stato primitivo perfetto. Corruzione per abuso di ragione e di conoscenza che conduce inevitabilmente l’uomo verso l’infelicità, lasciandogli forse solo la nostalgia per uno stato diverso. La nostalgia dell’origine».

Nostalgia dell’origine, ritorno a uno stato diverso, sicuramente integro, non più diviso. Chissà che non si possa parlare – con la dovuta cautela – della ricerca di una “concezione immacolata”, di una purezza nello sguardo, pur codificata in termini filosofici. Di un compimento della natura umana, senza che essa diventi alla fine la più potente delle illusioni.

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