Raoul Precht
Periscopio (globale)

Il confinamento di Burney

Ritratto di Christopher Burney, morto giusto quarant'anni fa, reso celebre da un solo libro: quello in cui raccontò la sua terribile reclusione in una prigione tedesca nel 1942. Una pietra miliare della letteratura concentrazionaria

Quarant’anni fa non moriva solo John Lennon, ma anche – per l’esattezza dieci giorni dopo, il 18 dicembre – un suo compatriota molto meno famoso, uno scrittore autentico ma in qualche modo casuale, che non verrà troppo ricordato neanche nelle storie della letteratura. Sto parlando del britannico Christopher Burney, il quale in tutta la vita non ha pubblicato se non un paio di libri, uno dei quali, dal titolo Solitary Confinement (Cella d’isolamento), del 1951, è il frutto quasi fortuito – ma non per questo meno importante sotto il profilo letterario nonché, direi, filosofico – di una di quelle esperienze vissute che sembrano tali da imprimere una svolta al destino.

Il primo grande merito di Burney è quello appunto di avere scritto un libro, questo libro, incentrato sull’esperienza della sua detenzione durata ben quindici mesi in una cella d’isolamento a Fresnes. Il secondo è di essersi sempre rifiutato di scrivere un seguito, tenendo testa alle lusinghe dell’editore e del pubblico e resistendo dunque, in definitiva, a quel mostro dalle mille facce che è la curiosità umana. In realtà, del successivo soggiorno forzato a Buchenwald aveva parlato in un altro testo, The Dungeon Democracy, uscito subito dopo la guerra, e probabilmente non gli sembrava utile aggiungere altro. E in seguito? “Dopo la guerra,” scrive nella prefazione alla seconda edizione inglese, “non c’è stato nulla d’importante nella mia vita.” (Tutte le citazioni sono tratte dall’edizione Adelphi, nella traduzione di F. Bovoli.) Proprio nulla? Nulla, almeno, di cui valesse la pena parlare, nulla da dare in pasto alla curiosità altrui. E prima? Le vicende che hanno portato appunto alla reclusione a Fresnes? Non sono forse troppo rilevanti neanche quelle, tanto che Burney non ne fa quasi parola; ciò che veramente conta nel libro è l’esperienza del confinamento forzato, e nient’altro.

Ma qual è in sostanza, si chiederà il lettore, ora giustamente incuriosito (o almeno così mi auguro), la sua storia? In pratica, si riduce a poco: Burney era un tenente dell’esercito inglese che, avendo vissuto diversi anni in Francia e conoscendo quindi bene il francese, era stato reclutato dallo spionaggio britannico e paracadutato oltremanica, nel maggio del 1942, per una missione segreta. Accortosi ben presto che i suoi contatti in Francia erano stati traditi e risultavano sorvegliati, Burney, lasciato a se stesso, tentò di creare, ma senza troppo successo, una propria rete operativa sul suolo francese. Quando era sul punto di attraversare i Pirenei per riparare in Spagna, fu arrestato dagli invasori tedeschi e inviato alla prigione di Fresnes, dove sarebbe stato tenuto in isolamento totale per quindici mesi, prima di essere trasferito a Buchenwald. Cella d’isolamento è appunto il resoconto, quanto più possibile obiettivo e distaccato, di questi quindici mesi, come dicevamo quasi senza alcun riferimento al prima e al dopo.

Per soddisfare ogni ulteriore curiosità (giustificata) del lettore dico subito che Burney sopravvivrà anche a Buchenwald e che nel dopoguerra lavorerà per le Nazioni Unite nonché in seguito come manager della British & French Bank creata dal banchiere Siegmund Warburg fra il 1947 e il 1967 e oggi confluita nel gruppo BNP. Va aggiunto solo che alla notorietà di Burney e del suo libro, almeno nel mondo anglosassone, contribuirà notevolmente, nel 1967, il trattamento approfondito che ne farà il critico letterario Frank Kermode nell’ultimo capitolo del suo famoso saggio The Sense of an Ending: Studies in the Theory of Fiction (ripubblicato in italiano dal Saggiatore proprio quest’anno). Kermode rileva nella narrazione di Burney un modello esemplare della descrizione dei vari modi in cui l’individuo può affrontare lo scorrere del tempo o la sua apparente immobilità, in quanto vede in Burney una sorta di narratore archetipico che reinventa e condivide con il lettore, dandole significato, una vita alternativa a quella vissuta.

Tornando alla vicenda di Burney, egli viene dunque catturato dai tedeschi quando è a un passo dalla salvezza. “Il destino”, commenta con una bella immagine, “s’era, per così dire, stancato della trama che aveva tessuto intorno a me, delle persone e dei luoghi accanto ai quali mi aveva fatto passare; aveva stracciato il copione, aveva disfatto il mondo che aveva creato, e ora stava chiedendosi se doveva fare lo stesso con me.” All’improvviso, quindi, affetti, persone, luoghi e perfino il suono delle cose scompaiono, perdono di presenza e nitore, e il soggetto si ritrova completamente solo con se stesso, senza avere nulla da fare. “Le quattordici ore o più di luce potevano essere riempite solo dai movimenti senza scopo che il mio corpo compiva dentro la cella, e dal vagare dei pensieri dentro il mio capo.” Nell’assenza quasi totale di stimoli esterni ecco che Burney è costretto ad affidarsi solo alla mente, a inventarsi metodi sempre più estremi e sofisticati per tenerla impegnata: “ci vuole un cervello ben nutrito”, commenta, “per affrontare una cosa così assoluta come il Nulla.” Nel frattempo la situazione lo porta a fare delle scoperte: si rende conto per esempio di quanto ci sia necessaria la tanto disprezzata routine quotidiana, che diventa ancor più preziosa quando a interromperla è un evento sgradevole. La prima cosa da fare per salvarsi è organizzare il tempo, che in carcere si è praticamente sostituito allo spazio, lo spazio essendo ridotto al minimo mentre il tempo è dilatato al massimo. Stabilisce quindi un susseguirsi di periodi fissi nei quali, ad esempio, farà la manicure con una scheggia di legno, si sottoporrà a esercizi fisici, e così via. Perfino il pasto giornaliero sarà diviso in due razioni da consumare in momenti prestabiliti e inderogabili, il cui mancato rispetto può avere conseguenze gravissime. Burney scopre inoltre che “la vita è soprattutto l’esperienza del succedersi degli eventi e si rarefà quando questo si allenta.” In altri termini, la vita, e la forza che la innerva, sta nell’attesa di un accadimento, che può essere anche rinviato sine die, ma esiste nella nostra mente per il fatto stesso di aspettarlo. Il pensiero vola evidentemente a Buzzati e al Deserto dei Tartari. Ciò di cui si soffre, insomma, non è il mancato (o troppo flemmatico) trascorrere del tempo, ma la lentezza di quest’avvento.

Nella sua graduale scoperta, e rivelazione, di un altro se stesso, fra le altre cose Burney scopre quanto i suoi pensieri e gli atteggiamenti assunti via via che il tempo si dilata siano tributari della sua origine. Con molta autoironia si autodefinisce “un ‘insulare’ anglosassone che in seguito tornò all’insulare modo di vivere anglosassone”, anche se al tempo stesso scoprirà quanto questa definizione gli stia alla fin fine stretta, e quante limitazioni quell’origine possa comportare. Il riferimento agli inglesi e al loro modo di vivere merita incidentalmente una glossa e un’altra citazione, un po’ più lunga e dettagliata: “Quando la pace viene infranta (dagli stranieri) egli [l’inglese] va tranquillamente a combattere, e se viene preso prigioniero limita i suoi rapporti ai propri compagni e organizza l’esistenza secondo le regole stabilite. Non diventa mai uno straniero. Questa è la forza coesiva per cui siamo così invidiati all’estero e che ci dà la flemma, la tolleranza e quel nostro conservatorismo un po’ borioso.” Sebbene personalmente io abbia qualche dubbio almeno su due passaggi di questa citazione – l’avverbio “tranquillamente” e l’invidia che gli inglesi susciterebbero –, non posso non scorgervi anche alcune ironiche verità, che Burney esprime con grande schiettezza.

Ma il riferimento alla propria cultura di partenza è tutto sommato aneddotico e non rappresenta certo il fulcro della riflessione, che assume anzi una rilevanza universale e proprio per questo si sottrae ai limiti di qualunque narrazione autobiografica o diaristica. Fra le numerose osservazioni che Burney è portato a fare dalla sua stessa condizione di prigioniero ve ne sono di pratiche, di filosofiche, di religiose: laico e anche estremamente critico nei confronti della religiosità popolare, tanto da sottolineare gli aspetti propagandistici del Nuovo Testamento o da rimarcare come gli ebrei attribuiscano a “un padre di tipo vittoriano (…) le poche cose buone che incontrarono sul loro cammino e, assai più giustificatamente, le loro eterne tribolazioni”, Burney finisce per trovare paradossalmente la miglior descrizione della vita di un detenuto in un versetto dei Salmi: “Poiché tutti i nostri giorni sono trascorsi nella Tua collera; i nostri anni sono passati come una storia che ci è stata raccontata” (la sottolineatura è mia).

Non mancano nel racconto di Burney alcuni momenti meno speculativi e più narrativi, a cominciare dai tre interrogatori ai quali è sottoposto. Come un’eco lontana gli arriva anche qualche notizia da fuori, come il terribile destino del giovane francese rispedito a casa della madre accecato, senza più denti e con la lingua strappata, per essersi rifiutato di parlare durante un interrogatorio. Fra le scoperte che Burney fa, man mano che l’isolamento aumenta e per così dire si perfeziona, sorprendendosi di se stesso, particolarmente significativo è l’atteggiamento quasi di fastidio che assumerà nei confronti dei vicini di cella che vorrebbero istituire con lui una qualche comunicazione. La diffidenza e la paura superano lo stimolo a interagire e a com/patire; nei confronti di uno di questi compagni di sventura Burney scrive: “…avevo definitivamente rinunciato a comunicare con lui da quando mi aveva fatto sapere che un generale dal nome Eisenhower stava per vincere per noi la guerra nel Mediterraneo. Poiché non avevo mai sentito questo nome, supposi che fosse tedesco e pensai che il mio vicino facesse una gran confusione sugli avvenimenti bellici.” Considerazione che avrebbe quasi del comico se non ci trovassimo in una situazione di tragica fragilità umana, ben evidenziata da altre riflessioni che Burney fa – non molto dissimili da quelle di Primo Levi, soprattutto ne I sommersi e i salvati – sulla violenza subita e sull’umiliazione del prigioniero che non può in nessun modo salvaguardare la propria dignità di essere umano: “Un colpo che non si può restituire lascia un senso di vergogna che non ha nulla della paura, ma demoralizza più di qualsiasi sofferenza.”

Nel libro è naturalmente molto presente la morte, come eventualità, rischio e probabile scioglimento, ma viene esorcizzata attraverso i continui rinvii che il mancato svolgersi delle cose previste e auspicate – prima fra tutte, la liberazione da parte degli Alleati – impone, e che permette a Burney di frazionare il Tempo (con la maiuscola), guadagnando così per se stesso del prezioso tempo esistenziale. Malgrado tutto, l’esperienza della cella d’isolamento, come ricorda Burney, si trasforma per lui in un esercizio di libertà, libertà che in condizioni normali non avrebbe mai esperito; esercizio, anche, di riscoperta dello zoccolo duro e infrangibile della propria personalità, che sola potrà consentirgli di superare i momenti di maggiore patimento. Anche per questa ragione è per noi tutti, credo, un libro da riscoprire e su cui meditare prima che finisca quest’anno singolare, in cui abbiamo vissuto in prima persona, sia pure in modo assai più elastico e meno drammatico di Burney, il nostro piccolo confinamento.

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