Alessandro Marongiu
La vocazione alla scrittura

Voci dalla Sardegna

Alessio Bianco con “Il malseme di Adamo”, Angelica Grivel Serra con “L’estate della mia rivoluzione” e Ilenia Zedda con “Nàccheras”: tre esordi di tre narratori sardi che inseguono (con risultati molto diversi) il mito del romanzo di formazione

Mancano innumerevoli cose in Sardegna, ma non le contraddizioni. Più di qualcuna riguarda anche il mondo dei libri: ad esempio, a fronte di un dato drammatico come quello dell’abbandono scolastico, che vede l’isola in testa alla sgraditissima classifica nazionale, non mancano i lettori, in una percentuale che nel triennio 2016-2018 è stata anzi sensibilmente superiore alla media del Paese. Di sicuro, poi, non mancano gli scrittori, molti (e con “molti” intendiamo: troppi) in rapporto a una popolazione tutto sommato esigua (poco più 1 milione e mezzo di abitanti) anche se ci si limita a considerare quelli che escono con un marchio grande o medio (il sottobosco dei sedicenti, degli improvvisati e dei paganti-per-essere-pubblicati non lo si prende neanche in considerazione). Sarà, questa esuberanza a raccontare, retaggio della grande tradizione di letteratura orale della regione? Chissà. Alla lista si sono di recente aggiunti tre nomi nuovi, Alessio Bianco con Il malseme di Adamo (Scatole Parlanti, 182 pagine, 15 euro), Angelica Grivel Serra con L’estate della mia rivoluzione (Mondadori, 288 pagine, 18 euro) e Ilenia Zedda con Nàccheras (DeA Planeta, 240 pagine, 16 euro). I rispettivi esordi non potrebbero essere più lontani, eppure – sempre per stare alle contraddizioni isolane – tanti sono anche i punti di vicinanza o tangenza, il principale dei quali è che tutti e tre, ciascuno a suo modo, sono romanzi di formazione.

Bianco debutta con un’opera dalla spiccata visionarietà, incentrata sull’apprendistato intellettuale e artistico di un aspirante scrittore. All’ennesimo rifiuto servitogli da un editore e ormai sull’orlo di un crollo nervoso, il protagonista vede sbucare davanti a sé dal nulla una misteriosa casa avvolta nella nebbia: sulla soglia lo attende un altrettanto misterioso anziano, che lo guiderà all’interno di ambienti in cui spazio e tempo si confondono e l’identità, sia personale che autoriale, dovrà essere prima cancellata e poi ricostruita attraverso un arduo percorso iniziatico (prove da superare, torture cui resistere, corrette domande da porre). Con l’uscita dell’aspirante scrittore dalla “casa” e il suo ritorno al mondo reale si conclude la prima parte del libro, in cui a dominare è la cifra metaforica; è una sorta di surrealismo, invece, la cifra della seconda e molto più convincente parte, che vede il nostro intento a mettere a frutto gli insegnamenti ricevuti: abbandonata la letteratura di vuote parole che sa soddisfare solo la dimensione estetica dell’arte, l’uomo, non senza resistenze esterne, si farà predicatore di quelle prose e di quei versi che contribuiscono a formare la coscienza del lettore-individuo e lo aiutano a orientarsi nella ricerca della verità.

Volendo stabilire delle ascendenze, al di là di quella dichiarata e che fa capo a Dino Campana, Il malseme di Adamo potrebbe essere imparentabile ai, secondo la definizione di Geno Pampaloni, «romanzi di idee» di Guido Piovene, quei romanzi cioè in cui la speculazione e l’invito alla riflessione sono gli elementi capitali, ben più di ogni possibile aspetto narrativo. Piovene non è richiamato a caso, perché Il malseme di Bianco porta alla mente in particolare, e per consonanze e per dissonanze, Le stelle fredde: stabilirà il lettore se si tratta di mere suggestioni o meno. Senz’altro, l’urgenza del tempiese di presentarsi con una “dichiarazione di poetica”, come si sarebbe detto tempo addietro, finisce per prendergli la mano e nel complesso nuoce alla tenuta del romanzo, specie nella già citata prima parte, davvero troppo insistita e compromessa dalla lampante contraddizione – ancora contraddizioni! – di voler spiegare ciò che per statuto deve restare inspiegato (intendiamo: la metafora). Il cambio di passo nella seconda è però rimarchevole, con il ritmo e la scrittura che si sciolgono e le immagini che si fanno finalmente ardite (il dialogo da altri mondi con Campana, le vie ricoperte di specchi, la ragazza che fa violenza su di sé per riacquistare il diritto a esprimersi): scontate le normali ingenuità dell’esordiente con Il malseme di Adamo, Bianco riparta da qua. Intanto, ci si appunti il nome e lo si tenga d’occhio.

Il contenuto de L’estate della mia rivoluzione ci impegnerà brevemente, perché se ne dice pressoché tutto dicendo che si è davanti al più classico dei romanzi di formazione, di quelli vecchi(ssim)o stampo: dolori giovanili interiori ed esteriori – né l’una né l’altra anima di Luce, quella di bambina e quella di adulta, trovano corrispondenza nel suo fisico al momento in cui inizia il libro (quello stesso fisico che inoltre le gioca più di un brutto scherzo, visto che a diciassettenne anni la protagonista, tra un’alopecia e la caduta delle ciglia, ancora attende la comparsa del ciclo mestruale); l’immancabile viaggio; l’immancabile lutto che scuote dall’imbambolamento dell’infanzia; sul finire, l’orizzonte dell’età adulta (sancito da un amore coltivato tramite messaggi: non recapitati da complici valletti nel cuore della notte, ma da WhatsApp. Cambia poco).

Romanzo di formazione quindi, ma anche, passando il gioco di parole, di sformazione, se è vero che ancora a poco dalla conclusione quella di Luce è una lunga lagnanza verso il corpo da giovane donna che va assumendo, e che le fa rimpiangere il precedente, leggero e senza curve, da fanciulletta. I tratti sono quelli dell’ossessione («incombono pienezze tonde che non voglio accettare»; «le mie evidenti fattezze carnose»; [in mare] «tutte le mie curve sembrano stemperarsi»; «le mie fattezze piene, larghe nei posti sbagliati»; «accelero per quel che mi consentono le zone di gonfio intralcio»; «l’inesorabilità delle mie forme avversarie»; «la gonna segue poco le mie linee, celandone i tratti di troppo»; e avanti così, per gli altri due terzi del romanzo); e l’ossessività del resto, così come bellezza intelligenza e perspicacia possedute ai massimi livelli, di Luce è una della peculiarità, nonché una delle svariate eredità che le vengono dalla madre Valeria («Non essere aggressiva con me. Sto solo provando a estendere il tuo orizzonte. E spingi a fondo quelle cuticole. Non sopporto chi non ha cura delle proprie mani»), insieme alla passione per la letteratura e a un atteggiamento di alterità verso il mondo e il genere umano che travasa con naturalezza nell’insofferenza e nello snobismo (del tipo più noioso; ché ci sono anche snob e snobismi simpatici, coinvolgenti, ammirevoli: non è questo il caso). Le due vivono un rapporto prossimo alla simbiosi, cucito da una teoria di rituali modi e pensieri che a qualcuno pare persino poco sana, almeno relativamente a Luce, che è soggetto ancora da farsi. Loro non si curano granché delle voci di dissenso e, includendo nel cerchio magico giusto un fratello-zio, una madre-nonna e due-tre comparse, sembrano bastarsi e avanzarsi.

Se il contenuto – volgarmente: la trama – ha un’importanza tutta secondaria, il peso nel romanzo ricade su due elementi inscindibili: la caratterizzazione di Luce e la sua voce, che equivale a dire la scrittura, essendo L’estate della mia rivoluzione raccontato in prima persona.

Qui stanno le vere note dolenti. Quali fossero le intenzioni della Grivel Serra, si è davanti a un’opera che si riduce a un’esibizione muscolare di lessico ricercato, che sarà anche narrativamente giustificato dalla non ordinarietà dalla protagonista, ma che non conosce né capacità di controllo né forma di limite alcuna. Si arriva infatti non di rado a travalicare il parossismo: «È tremendamente snervante pensare al mio munifico presente di un tempo passato, che a lungo sembrò davvero vaticinare un’armonia corporea alla quale mi affidai sempre, senza mai lasciarmi scavare dal dubbio, ritenendola per sventato errore eterna»; e più avanti: «A onta dei fiori, qualcosa ispirava tumulti già in partenza in quella serata dal manto antracite. Lo sentivo anche nel corpo: ricordo come mi trovassi urticante in quel mio insolito verbigerare sulla soglia dell’epilettico, in saldo contrappunto con una fredda flemma nel respiro alla quale lui non sembrava far caso». Lo stile della cagliaritana alza una barriera impenetrabile per il lettore, che non ha mai modo di avvicinare Luce, le sue scarne vicende e le sue infinite elucubrazioni se il personaggio, ad esempio dovendo trasmettere lo sgomento e la sofferenza per un evento eccezionalmente doloroso, dice di avere dentro «una farcia ingrommata di gelo, fretta e avidità». In quest’ottica, il colpo di grazia lo danno il ricorso, estenuante, agli infiniti sostantivati, anch’esso spesso portato al parossismo (complice la derivante necessità di unirvi gli aggettivi possessivi, terribilmente mal gestiti in tutto il testo): «trovo eccessivo quell’ammutolire le sue vicissitudini di vita a favore di una meticolosa attenzione nei confronti delle storie altrui, per non parlare di quel suo strenuo dispensare nuove, inesauribili possibilità a chi ha ripetutamente scalfito la sua fiducia. Il suo instancabile predisporsi all’inclusione non entra quindi in contrappunto con il suo essere così slanciata»; e una prosa che insegue stucchevolmente gli artifici metrici: in un’unica pagina, la 35, troviamo: «profumo fumante», «confondono in una combinazione confortevole», «campanello trillare all’interno», «affaccendata con tenacia affannosa», «affidare il proprio affetto».

Tra tutti questi difetti e ingenuità varie assortite (un naso «di caratura importante»; «Scoprii che Agnes era di madre londinese, dunque perfettamente anglofona»; «Frida mi raggiunge da dove stava»: da dove mai si potrebbe raggiungere qualcuno se non da dove si stava?), una pagina, dedicata a un ritratto da vicino dell’insegnante di inglese Agnes, nella sua linearità di fondo lascia intravedere una Grivel Serra diversa, che si fa leggere: e non sarà un caso che sia proprio la pagina in cui il cosa dire non è soverchiato dal come dirlo, e in cui Luce è messa (parzialmente) da parte. Speriamo, in primis per lei, che l’autrice prosegua su questa strada; al momento, l’opera che – ipotizziamo – doveva attestarne la precocità, avendo lei vent’anni, ne certifica solo l’immaturità.

Anche Nàccheras di Ilenia Zedda è ambientato in estate: quella, per l’esattezza, in cui i tredicenni Francesco e Caterina, compaesani e compagni di classe, si scoprono vicendevolmente innamorati all’insaputa l’uno dell’altra, fino a quando uno spaventoso rinvenimento li accomunerà prima, e farà avvicinare (e crescere) poi. Lui, orfano di padre, appartiene alla terra, al suolo, e al sottosuolo della miniera in cui il genitore ha perso la vita; lei, orfana di madre, appartiene al mare, vincolata dal sangue a proseguire l’antica tradizione che fa delle donne di famiglia le depositarie dei segreti della raccolta e della lavorazione del bisso, la cosiddetta “seta del mare” (ma dietro, in realtà, c’è da coltivare l’amore verso l’umanità intera). Riusciranno a svicolare dai sentieri che sembrano già scritti e decisi per loro, e a trovare, ognuno per conto suo e contemporaneamente insieme, la propria via?

Il punto con Nàccheras è che si perde presto ogni tipo di interesse verso la risposta. Non perché il libro esibisca fin da subito la sua natura di prodotto di consumo – il che, in sé, non costituirebbe un problema o un ostacolo all’eventuale apprezzamento –, ma per il prodotto di consumo che è: talmente piano, per non dire piatto, sia in merito alla storia che allo stile, da non lasciare traccia o ricordo dopo la lettura. Non aiutano di sicuro lo sfondo, ovvero il solito paesino sardo immobile e desolato (questo, Santa Lucia, è «dimenticato» perfino «da Dio in persona»), e il consueto scontro tra Natura-Madre benigna e Sviluppo-portatore (forse) di benessere economico e (sicuramente) di morte&distruzione; ancor meno aiutano gli esotismi linguistici e i folclorismi (la murra, sopracciglia unite in un’unica striscia, il criminale di Orgosolo che si veste di velluto e guida una macchina con buchi di proiettile sulla fiancata), quelli che tanto confermano nei non-sardi un’idea di Sardegna buona per un’agenzia di viaggi di mezzo secolo fa. Come spiegare altrimenti l’incommentabile seconda di copertina («Ambientato in una Sardegna arcaica, suggestiva e piena di mistero, questo romanzo è spinto da una magia implacabile e ritmica come un’onda increspata dal maestrale»)? Per giunta, e almeno in un passo in maniera quasi calligrafica («Spinse con prudenza il portone già socchiuso ed entrò. Si fermò sulla soglia per scrollarsi un po’ di polvere dai polpacci a presentarsi alla bell’e meglio al cospetto di Remedia. Si diresse in cucina senza salutare, un po’ col capo chino di chi deve essere cosparso di cenere il mercoledì santo»), sul debutto della Zedda grava la più ingombrante delle ombre per lo scrittore sardo-tipo e per il romanzo sardo-tipo, quella della Deledda (l’infrazione alla norma come motore della vicenda, il tentativo di ribellione a un destino già segnato): senza che qui ovviamente neanche si sfiorino le vertiginose profondità di senso e di rimandi dell’autrice nuorese.


Accanto al titolo: Guido Guidi, “Sardegna”, 1974 (particolare).

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