Marco Vitale
Nuove poesie di Marco Molinari

L’agenda delle fiabe

“Come per una stagione breve” è una raccolta che scaturisce da un antico quaderno di frammenti, «un diario che graffia e enuclea» e che rivela la cifra poetica insieme reale e fantastica dell’autore mantovano

Nello spazio di questi lunghi mesi di chiusura, e purtroppo di tanti troppi lutti, è inevitabilmente passata sotto silenzio la nascita di una nuova collana di poesia; la dirige Pasquale Di Palmo e si avvale, sul bianco adibito alle copertine, delle sorprendenti entomologie di Luciano Ragozzino; di qui, per letterario understatement, il suo titolo: “Gli insetti”. A inaugurare la collana, che seleziona autori di percorso appartato e comprovata qualità di scrittura, un poeta come Marco Molinari, con una storia di poesia che viene da lontano. E basti dire che fra quanti hanno creduto nella sua voce figura Milo De Angelis, che pubblicò nell’ultima fioritura di “Niebo” il suo bellissimo Madre pianura(2002) e da allora ha sempre introdotto le sue raccolte. 

Molinari torna ora con un libro – Come per una stagione breve (MC, 82 pagine, 10 euro) – che fa in qualche modo storia a sé; proviene, per necessaria decantazione, da un’agenda riempita di versi a metà degli anni Ottanta del secolo trascorso, un’agenda ritrovata ma forse mai persa di vista. Un quaderno di frammenti, ma anche di più distese misure, di stupefazioni e incanti, di ripulse e invocazioni, domande, sogni: un diario dunque, che graffia e enuclea. Le figure vi agiscono come in assenza di una dimensione prospettica, secondo un gusto caro al romanico, soprattutto padano: i loro drammi, come le loro estasi, seguono l’andamento delle modanature, a esse adiacenti nella loro pronuncia che è puntuale e definitiva. E come in una stratificazione “di cantiere” la pagina restituisce sbalzi e urti, mutilazioni e scorie quali fingiamo di – ma non possiamo – non vedere. 

L’arenaria del portale, cedendo a tratti all’erosione, se ne fa testimone comprendendo in un ordine il disordine e nel dolore un’idea di destino che non trascura gli ultimi, gli esclusi, «quelli che si lavano la fronte alla fontanella / dei giardini pubblici e sono soli / davanti al cibo che tengono in mano», Leonardo Boff ereticato, il povero cavedano che nuota in una corrente non più dolce, ma inquinata. Vi è una sensibilità particolare ai luoghi nella poesia di Marco Molinari – e vorrei qui almeno ricordare il suo recente cristallino Città a cui donasti il respiro (2016) – che si evidenzia anche in quest’ultimo libro. E tra le sue pagine più riuscite si contano alcuni indimenticabili paesaggi di filari, di argini; un mondo golenale che richiama per alcuni aspetti la poesia di Umberto Bellintani, come anche la dilatazione dello sguardo di un cineasta poeta come Franco Piavoli, proprio a partire dal dettaglio visivo. La Foce del Mincio è una scuola di sguardo col suo «infinito spettacolo di riflessi»: «Non erano grandi cambiamenti, anzi, / chi non era allenato / da intere giornate d’osservazione / o fosse arrivato per la prima volta / non avrebbe ricordato niente di particolare / solo una fastidiosa polvere negli occhi». 

Non so se Marco Molinari abbia pensato a questi bellissimi versi come a una dichiarazione di poetica, ma è nel loro spazio che può essere inteso, o quanto meno avvicinato, il suo complesso universo di poesia, in un’implicita richiesta di abbandono alla necessità e al nitore delle sue figure, alla loro cifra insieme reale e fantastica o forse, meglio ancora, fiabesca, come nel caso della «fanciulla allevata dalle pulci» per cui invoca pietà, o dell’incantevole usignolo, «col becco follemente inanellato / nei fiumi che scorrono invisibili».

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