Riccardo Bravi
A proposito di “Still Life”

Inseguendo Hopper

Sergio D’Amaro raccoglie una serie di poesia ispirate alle opere di Edward Hopper: un esperimento riuscito per restituire sulla pagina la Still Life, ossia la partitura di vitalità tipica dei quadri del pittore americano

È da tempo risaputo che il rapporto tra parola e immagine dipinta si situa in un ordine di pensiero in cui pochi si sono cimentati. Uno di questi fu certamente Diderot, il quale alla fine del XVIII secolo inizia a descrivere nei Salons, con un piglio squisitamente filosofico, alcune delle opere d’arte più in voga del periodo. Gli fecero seguito autori come Baudelaire e Gautier, che con la loro sensibilità iniziarono a farsi portavoce in Francia della figura del maître ès-arts, vero e proprio connubio vivente tra la figura del poeta e quella del  critico d’arte.

Allontanandoci dal Vecchio Continente: l’interessante silloge del poeta pugliese Sergio D’Amaro (Still Life, FaLvision Editore, Bari 2019, euro 10,00) propone una interpretazione poetica di tredici quadri del pittore americano Edward Hopper; tredici “suggerimenti” (così reca il sottotitolo dell’opera) dettati dal pennello di questo stravagante illustratore, i quali trasporrebbero sulla pagina bianca un mondo umano altresì nascosto nelle tonalità chiaroscurali di consunti paesaggi americani. Quel mondo peraltro tipicamente americano che – a detta del poeta nell’introduzione al suo lavoro – “per un qualche verso ti appartiene, ha un senso anche per te”: si tratta infatti di un universo simbolico in cui una qual certa condizione individuale (“l’America degli anni Trenta, le preoccupazioni e lo smarrimento della Grande Crisi”) si erge a monito universale, facendosi portatore della condizione di solitudine che sembra essere propria alla natura umana.

Al seguito del famoso studio di Yves Bonnefoy su Hopper uscito in Italia poco più di un decennio fa (Edward Hopper. La fotosintesi dell’essere, trad. it. di Caterina Medici, Abscondita, Milano 2009) – lui che impugnando le redini di Baudelaire sviluppa una esigente interpretazione  dell’ut pictura poesis, calco latino meno sobrio dell’ekphrasis, nella quale l’aggettivo “etico” soppianta quel bisogno incisivo, contemplativo, fin’allora quasi maniacale del porsi in relazione con le opere d’arte sul solo piano strettamente estetico –, il poeta di San Marco in Lamis si cimenta in un ardito lavoro di ricostruzione poetica di alcune opere pittoriche.

I racconti poetici di D’Amaro espunti dai tableaux danno in qualche modo vita a quei personaggi enigmatici che riversano nell’immaginario di Hopper, manichini di carne la cui linfa vitale è stata strappata via dai traumi del passato. Così la sezione I di Pub al passaggio della notte: «Ma sogno? Quello di fronte forse è Johnny, / tutto immerso nel suo dolore alcolico, / vent’anni fa mi diede un anellino col biglietto, / era scritto “Mai ti scorderò, Susan, mai ti lascerò…”. / Mi ha scordata e ora è solo al suo sgabello, / ora forse rimpiange il suo passato».

Intento freudiano: certamente sì. Dacché il tentativo di “elaborazione del lutto” sembra riecheggiare come un leitmotiv in tutta la silloge – proseguendone il portato semantico nell’ultima raccolta più intima del poeta, Ceneri e braci [2013-2016] – quasi come se quelle figure cesellate e spente siano impossibilitate a pensare un altrove, un avvenire che possa lenirne le ferite, un “avvento”, nel senso più escatologico del termine, legato a ciò che il filosofo tedesco Bloch soleva chiamare il “principio-speranza”. Ed è dunque una assenza di teologia quella che imperversa nei quadri di Hopper, con la quale il cristiano si misura nell’arduo tentativo di dar voce agli elementi iconografici che seppur gettati in pieno nel magma di una lugubre afasia esistenziale sono portatori al tempo stesso di una mistica “presenza”.

Bisogna in fin dei conti rendere grazie a D’Amaro per averci restituito – attraverso l’uso della scrittura, la quale costituisce di per sé un linguaggio astratto che giunge ad un processo di significazione solo con l’aggiunta successiva di elementi – quella Still Life, ossia quella partitura di vitalità (e tuttavia di speranza) rimasta sopita tra le pieghe chiaroscurali dell’anima.

Da Vulcano p. 2:
In dieci anni corrono due incendi
e il tempo in fuga ne lascia solo ceneri
come a dirmi che la notte segue il giorno.
Vano è sfidare l’avvenuto
e vana la scintilla che l’accese
ora è solo un braciere muto
la briciola d’un pane rinsecchito.

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