Giuseppe Grattacaso
Tra parlare, narrare e "impazzire"

Nostro virus virale

Il virus globale ci ha fatto (almeno) capire che la condizione di eccitazione e di eccitabilità in cui nel nostro Paese viviamo da anni, l’apparire costantemente sopra le righe, è il segno della nostra fragilità

Dalle prime pagine dei quotidiani online è scomparso il termine virale, almeno ad indicare, come avveniva con grande frequenza fino a pochi giorni fa, il video che ha ottenuto centinaia di migliaia di visualizzazioni e che è dunque “diventato virale”, o l’informazione alternativa diffusa tramite social. Le clip, solitamente amatoriali, rappresentano gesta eroiche o buffe di cani e gatti, prestazioni vocali inusitate e danze scatenate, meglio se di bambini, gaffe sportive di ogni tipo, squali che attaccano barche da pesca, elefanti che non lasciano passare la jeep dei turisti in qualche tour safari. È il mondo globale ridotto a sberleffo, a barzelletta, a paura altrui da archiviare in fretta.

La parola virale ha assunto da qualche settimana ai nostri occhi tutt’altro significato, crudelmente riportata al suo valore originario e non metaforico. Allo stesso modo ci siamo resi conto, in maniera repentina, che la globalizzazione non è fatta solo di merci che vengono vendute a decine di migliaia di chilometri dal luogo di produzione o di condizionamenti finanziari, di borse di Hong Kong o di Singapore che determinano i nostri destini economici, ma di persone che si spostano velocemente dall’una all’altra parte del mondo, anche quando non ce ne sarebbe necessità (come dimostrano i repentini cali di viaggi aerei degli ultimi giorni). Sono donne e uomini che si danno la mano, si abbracciano, vanno a cena insieme in locali affollati, frequentano manifestazioni e teatri, assistono a concerti rock e seguono la squadra di calcio del cuore a centinaia di chilometri dal luogo dove abitano. Donne e uomini che solitamente prendono il raffreddore, tossiscono, starnutiscono, non si guardano con sospetto alla prima soffiata di naso.

L’informazione nelle ultime settimane ha cambiato narrazione, termine anche questo abusato, con il quale, da qualche tempo, giornalisti, conduttori televisivi, commentatori indicano il modo con cui la gente, e prima di tutti essi stessi, racconta la realtà. La realtà insomma, come in ogni epoca, si presenta per quello che è, con quel tanto di incomprensibilità e di astruse contraddizioni che la contraddistingue, ma quello che più conta, nell’età della messaggistica veloce tramite tweet e brevi proclami ad uso delle telecamere, è la narrazione appunto che si riesce a farne. È la narrazione che genera consensi, perché la realtà spesso è banale, la narrazione che ne facciamo può alimentare sogni, rabbie, paure, provocare entusiasmi, generare angosce.

La narrazione di quello che succede intorno a noi è bruscamente cambiata negli ultimi giorni. Ad essere virale non è più il video di qualche turista in cerca di followers, ma il virus stesso, così dalla risata con ricadute globali ci siamo ritrovati nell’angoscia questa volta ad uso delle singole comunità, intente di conseguenza a imporre barriere e a difendere i confini, a tentare di fermare l’invasione di un nemico per il quale però non servono barriere e confini.

Ai tempi del coronavirus l’informazione ha sbandato, cambiando repentinamente e più volte narrazione, lasciando bene in vista i trucchi, le facilonerie, le chincaglierie, la superficialità di chi crede che l’unica responsabilità per chi ci dice come va il mondo, quindi anche per i politici, sia quella di generare proseliti. Bisogna che ogni evento possa essere spettacolarizzato, tanto da poter diventare immagine virale. Quello che conta sono i like, il numero di consensi, che arrivano più facili se raccontiamo la realtà puntando ad esagerare le reazioni che tale narrazione comporta. Come spiegare altrimenti il racconto dei primi giorni di diffusione di Covid-19 nel nostro Paese, le immagini di uomini e donne, soldati e carabinieri con mascherine, di infermieri intorno ad ambulanze, di strade deserte, i presidenti delle Regioni affannati a chiedere interventi speciali, i politici a mostrarsi affannati nel fronteggiare l’emergenza? Come è possibile ritenere credibile e dunque in qualche modo utile, se non con il fatto che abbiamo perso la testa, l’affermazione che tra “il popolo veneto” la diffusione del virus sarà minore che in Cina perché i veneti hanno la cultura di farsi le docce e di lavarsi le mani, mentre i cinesi “li abbiamo visti tutti mangiare i topi vivi”?  Lo ha affermato, all’interno di un ragionamento più complesso ma comunque sconclusionato, il governatore Zaia, che a quanto risulta è laureato in Veterinaria e forse per questo parla con tanto discernimento delle cause di diffusione di un virus di cui anche i virologi sanno poco, forse perciò disquisisce su topi e “buone pratiche”. E poi, topi “vivi”? E se fossero stati morti, sarebbe cambiato qualcosa? Voleva forse dire “non cotti”? Come posso fidarmi di uno che ci racconta la realtà come un qualunque propagatore di fakes, impegnato in rete a racimolare emoticon, uno che racconta baggianate e insieme confonde “vivo” con “non cotto”, uno che non sa di quello che parla e intanto sta praticando razzismo e denigrando e umiliando senza ragione un intero popolo? (E perché, sarebbe da aggiungere, il giornalista di Antenna 3 – Nord Est che lo sta intervistando non sa fare niente di meglio che dargli ragione?).

Viene da chiedersi come la popolazione italiana e il governatore Zaia avrebbero reagito se durante il periodo della massima diffusione influenzale nel nostro Paese (proprio l’influenza, quella che abbiamo avuto tutti), gli organi di informazione avessero fornito la narrazione che due anni prima c’erano stati quasi 9 milioni di contagiati e 663 morti (il dato è dell’Iss)? L’ultimo bollettino sul coronavirus, tanto per dire, parla di 1049 contagiati e 29 vittime.

Credevamo di sapere tutto, che bastasse aprire la tv perché qualche sapiente ci proponesse una verità incontrovertibile: c’è una malattia, ti diciamo come è fatta e come è possibile evitarla e liberarcene. La diffusione del coronavirus spaventa perché ci dice di stare fermi in una zona di buio, dove è possibile una cosa e il suo contrario. I virologi vengono accusati in questi giorni di fare affermazioni contrastanti. È quello che la scienza ha sempre fatto prima di arrivare a una sintesi, che potrà comunque anch’essa essere messa in discussione con il passare del tempo.

Quello che è certo è che ci siamo scoperti estremamente fragili, oltre che vulnerabili. La condizione di eccitazione e di eccitabilità in cui nel nostro Paese viviamo da anni, l’apparire costantemente sopra le righe, è il segno della nostra fragilità. Può prendere strade diverse, portarci in poco tempo da uno stato di festa perenne (siamo ormai in grado di festeggiare tutto, anche quello che prima non ci faceva né caldo né freddo) alla paura più incondizionata e inspiegabile. Se chi dovrebbe farci da guida, agisce solo seguendo i nostri umori, perché la prima qualità di ogni politico pare essere quella di avvertire le tendenze e le inclinazioni della massa delle persone e tradurle in enunciazioni di principio, non possiamo evitare di affrontare le crisi se non abbandonandoci alla emotività. È la nostra instabile tenuta di fronte alle difficoltà a portarci in massa a fare acquisti ai supermercati (su tutti la farina, come se dovessimo da domani metterci a fare il pane in casa), proprio tra l’altro quando forse sarebbe stato meglio evitare gli assembramenti.

Qualcosa di simile l’abbiamo già vista ed è stata già raccontata e da ben altro narratore rispetto ai fuochisti, giornalisti e politici, attivi al tempo del coronavirus. Nel giugno del 1630, proprio nel periodo di maggiore diffusione della peste a Milano (e anche lì di farina e di pane sapevano qualcosa), i fedeli chiesero al cardinale Borromeo una processione per invocare il soccorso divino. Il cardinale prima rifiutò, poi, vista la pressione popolare, fu costretto a cedere. La processione si tenne, ci fu un’enorme partecipazione di popolo e dal giorno dopo i decessi aumentarono in maniera esponenziale.

Ma non siamo nel Seicento, il premier Conte non è Federigo Borromeo e gli untori non imbrattano i muri di intrugli venefici ma, se proprio ce ne sono, usano le parole. Il coronavirus del resto non è la peste. A proposito, lo slogan più abusato negli ultimi giorni parla appunto di peste e di influenza, ma a seconda di come si dispongono gli addendi, la frase significa cose diverse. “Il coronavirus non è la peste, ma non è nemmeno un’influenza” è la frase di chi ci vorrebbe un po’ più guardinghi, “il coronavirus non è un’influenza, ma non è nemmeno la peste” quella di chi preferisce soluzioni meno emotive.

Intanto dal governatore del Veneto Zaia sappiamo che in Veneto la diffusione è stata contenuta dato l’alto numero di docce che i veneti sono soliti farsi. Dovremmo partire da qui e guardare il futuro con ottimismo. Non ci facciamo forse tante docce, ma nemmeno mangiamo topi vivi.

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