Marco Emanuele e Teresa Ferrantino
I nuovi fantasmi globali

Il virus della paura

Il diffondersi del Coronavirus ha scatenato paure ancestrali alimentate (ad arte?) da tutti i mezzi di comunicazione. In questa psicosi di massa si specchia un tempo che idolatra la separazione dall'altro, invece che l'incontro

L’allarme sull’epidemia del Coronavirus ha scatenato una vera e propria psicosi di massa: scene surreali di una città “quasi fantasma”, Wuhuan, cittadini che girano indossando mascherine per proteggersi dall’eventuale contagio, negozi e ristoranti deserti ed episodi di discriminazione e di distanza. Le immagini che i media e i social network quotidianamente diffondono non inducono al ragionamento ma colpiscono direttamente l’emotività dello spettatore. Davanti a una minaccia impalpabile, come la diffusione di un virus letale, lo spettatore rievoca il proprio stato di essere mortale e automaticamente, al pari di una reazione a corto circuito, viene indotta la paura, insieme all’angoscia e allo smarrimento, oltre che al senso di impotenza e vulnerabilità.

Il diffondersi della paura di una pandemia, da parte dei moderni mezzi di comunicazione di massa,  rappresenta un vero e proprio strumento di manipolazione e controllo sociale che comporta asservimento psicologico, politico ed economico, utilizzato da chi detiene il potere, sfruttando i processi virali della rete e facendo leva sul meccanismo del contagio emotivo. La maggior parte delle persone non è affatto consapevole delle forme negative e manipolatorie, utilizzate dai mass media per dominarci, condizionarci ed orientare i nostri giudizi, opinioni e comportamenti, senza che ce ne rendiamo conto.

Come ha sostenuto il linguista e filosofo Noam Chomsky, nel suo libro Media e potere, una strategia di controllo sociale consiste nello stimolare le corde emotive, per permettere a chi vuole manipolarci di aggirare la nostra analisi critica ed agire sul nostro subconscio per impiantare o iniettare idee, desideri, timori o per indurre comportamenti.

Secondo Carrè tra «le manipolazioni emotive più utilizzate, la paura è una delle più efficaci perché attiva le funzioni primarie del nostro cervello. Quando ci sentiamo minacciati o ci troviamo in situazioni di pericolo, l’ansia diventa sempre più forte e così adottiamo comportamenti coerenti e prevedibili per sfuggire a questa emozione insopportabile. Il nostro spirito critico e la capacità di tenere a distanza situazioni o persone si disattivano, perché il nostro cervello è impegnato in necessità più urgenti; pertanto diventa più facile manipolarci» (Christophe Carrè. Le armi nascoste della manipolazione, Feltrinelli).

Toglierci dall’esperienza reale e concreta, radicalizzandoci attraverso la paura, è un qualcosa dal sapore totalitario e che ci estranea da “categorie progettuali” che Hannah Arendt, calandosi nel profondo dei totalitarismi del ‘900 e riflettendo sulle frontiere di una elaborazione post-totalitaria, aveva ben evidenziato: il pensiero (o, per meglio dire, il pensiero critico) e il giudizio.

Remo Bodei (Dominio e sottomissione. “Schiavi, animali, macchine, Intelligenza Artificiale”, il Mulino, Bologna 2019, p. 377) scrive: «Da quando la storia ha cominciato ad accelerare il suo corso, il passato ha iniziato a somigliare molto meno al presente, la memoria a perdere importanza e la previsione a diventare ancor meno attendibile. Anche per questo oggi – vivendo spesso momenti sconnessi, che per il loro veloce succedersi la coscienza non coltivata non fa in tempo a integrare sufficientemente in sé stessa – il pensiero corre maggiormente il rischio di ottundersi, l’immaginazione di spegnersi, i sentimenti di sfumare nell’indistinto, le passioni di diventare brade».

Rischiamo, dunque, di vivere sospesi e chiusi in noi stessi, impauriti da un mondo (solo) cattivo (certo percorso da un disagio reale e profondo) e colmo di nemici che, sempre di più, ci risultano “oggettivi”: lo straniero (in particolare il migrante) che porta con sé malattie e altri pericoli; il sottosviluppato che bussa alle nostre porte minacciando la nostra ricchezza e il nostro benessere; l’appartenente a una religione differente (per noi diversa) dalla nostra che ingenera dubbi fin da una lingua che ci è estranea, arrivando a comportamenti e modi di pregare per noi incomprensibili.

Velocità e paura, in sostanza, lavorano a ingigantire il virus della separazione, ben diffuso in un mondo che ci ostiniamo a definire “globalizzato” e che, in realtà, è un “mondo in tre mondi”: il mondo della connettività e dell’innovazione; il mondo del disagio e delle diseguaglianze e quello dei conflitti e dei muri.

Lungi dal vivere in un “mondo uno”, sorvegliati, come sostiene Shoshana Zuboff, in un “capitalismo della sorveglianza” che entra prepotentemente nelle nostre vite al fine di predire i nostri comportamenti, siamo profondamente divisi e incapaci di guardare alle prospettive di uno “spazio pubblico” che, solo, può garantire sostenibilità e resilienza alle nostre convivenze. Perché, alla fine, questo è il vero problema: al di là del “virus di turno”, che la scienza ci aiuterà a sconfiggere, c’è qualcosa che non passa perché ci appartiene intimamente, la paura di non farcela a reggere un mondo troppo lacerato, carico di odio e di una (insana) imprevedibilità. Molti sembrano dire che separarsi gli uni dagli altri sia l’unica prospettiva possibile. Chi scrive la rifiuta, lavorando ogni giorno a un “progetto di civiltà”, in linea con l’intuizione di Raimon Panikkar (La pienezza dell’uomo. Una cristofania, Jaca Book, Milano 2003, p. 20): «Sono convinto (…) che il mondo si trovi dinanzi a un dilemma di proporzioni planetarie: o avviene un cambio radicale di “civiltà”, di senso dell’humanum, o una catastrofe di proporzioni cosmiche».

Facebooktwitterlinkedin