Pier Mario Fasanotti
Alle radici del mistero italiano

La prima bomba

Cinquant'anni fa la strage di Piazza Fontana: fu il primo atto di una lunga, terribile stagione di sangue e misteri che vide coinvolti interi pezzi dello Stato. Una strategia volta a frenare le aperture sociali e politiche del Sessantotto. Ecco qualche consiglio di lettura

Nei dibattiti, negli appelli e nelle conversazioni più intelligenti ricorre spesso la parola “memoria”. Senza conservare questa ambiziosa quanto necessaria coscienza civile si rischia di vivere come zombi mentali. Certo, senza sapere le cose più importanti del nostro passato non ci è preclusa la normale allegria che dovrebbe accompagnare le nostre esistenze. Le quali però hanno davvero un senso profondo se si conserva la memoria. Zombi? Parola mutuata dal rituale vudu, ed efficacemente: lo zombi ha un atteggiamento allucinato e abulico.  Ecco perché le ricorrenze, alcune, non tutte, aiutano a conoscere come siamo stati.

Il 12 dicembre 1969 alle 16,37, quindi 50 anni fa, scoppiò una bomba nell’atrio della Banca Nazionale dell’Agricoltura, in piazza Fontana, a Milano, a due passi dal Duomo. Chi scrive questa nota, viveva e studiava in quegli anni a Milano e, confesso, non avrebbe mai pensato che quell’evento sarebbe stata una forte linea di demarcazione nella storia politica dell’Italia. Forse nessuno immaginava che si sarebbe potuto arrivare a tanto (per poi continuare). La prima frase urlata fu questa. «È scoppiata una caldaia». Il che riassume lo stupore oltreché l’ingenuità. Quando poi trapelò la verità, in mezzo al fumo, al puzzo di carne bruciata e alla nebbia, quando si venne a sapere che c’erano stati 17 morti e un’ottantina di feriti, quando, tardivamente, arrivarono decine di ambulanze, allora si comprese che l’Italia aveva la febbre altissima. A poco a poco si ricostruirono i minuti che precedettero quell’inferno metropolitano: un uomo prese un taxi a piazza Beccaria (poco distante dalla piazza, e chissà perché nessuno, a quel che mi consta, ne fu mai sorpreso) e si fece lasciare davanti alla Banca chiedendo al conducente di aspettarlo. Entrò con una borsa di pelle, si sedette tra le tante persone presenti (era un venerdì, giorno importante per le transazioni agricolo-commerciali), si rialzò poco dopo, uscì e s’infilò nel taxi. Il conducente, interrogato in Questura, fu perentorio: il misterioso cliente uscì senza la valigia. I dettagli sono importanti, e non solo quelli riguardanti direttamente l’attentato. Ci aiuta a ricordare il documentatissimo giornalista Mario Consani in Piazza Fontana. Per chi non c’era (Nutrimenti editore, 128 pagine,  14 Euro).

Pietro Dendena, 45 anni, mediatore di bestiami e di terre, entra in banca esattamente alle 16,30, temendo di essere in ritardo. Un amico lo vede trafelato, lo fa sedere al tavolo ottogonale. «Non senti puzza di bruciato?» chiede. Poi più nulla. Scrive l’autore della ricostruzione: «Una luce, un boato, il fuoco, i vetri in mille pezzi, le schegge, i corpi che si accartocciano, si bruciano, si straziano. Braccia che si staccano, gambe che volano, calcinacci come proiettili fendono l’aria, feriscono a morte…». Un altro testimone: «Entrai senza difficoltà nella grande sala a pianterreno. Vidi subito un braccio appiccicato a un muro e poi una testa rotolare sul pavimento… il sangue colorava il vetro polverizzato e il legno dei mobili in briciole… brandelli di cadavere, macelleria dell’orrore». Marco Sassano, cronista de Il Giorno: «…i corpi dilaniati, frantumati in mezzo a pozze di sangue nero. Un terribile odore di morte e un pesante silenzio rotto solo da un pianto isolato». Due uomini erano stati scaraventati fuori dalle vetrate.

Achille Serra, futuro prefetto di Roma, era un funzionario non ancora  trentenne a Milano. Dalla centrale operativa, con l’autoradio, mandano la sua volante in piazza Fontana. «Vidi quel che era successo, mi attaccai al telefono e gridai che servivano cento ambulanze. In Questura pensarono che avessi perso la testa. Alla fine mi credettero, le ambulanze furono novantotto». Nel frattempo scatta un allarme: alla Banca Commerciale di piazza della Scala, accanto all’ascensore che porta agli uffici dei dirigenti, viene trovata una bomba. Non è esplosa, per fortuna. Passano pochi minuti, altro allarme, questa volta da Roma: esplodono tre ordigni, senza causare vittime. Uno nel sotterraneo della Bnl, gli altri due accanto all’Altare della Patria.

In via Fatebenefratelli, sede della Questura milanese, il questore Mario Guida riceve i giornalisti. Guida ha un passato di fedele al regime fascista ed è stato direttore del confino politico di Ventotene. Ai cronisti lascia intendere che qualche pista la stanno battendo e ricorda che lo scorso 25 aprile alla Fiera Campionaria e alla Stazione Centrale c’erano stati due attentati. Un collegamento? Guida non è esplicito, «parla con gli occhi» come dirà un reporter. Ossia la colpa è degli anarchici.

Errore madornale nelle indagini: la bomba trovata alla Banca Commerciale viene fatta brillare da un artificiere, assistito dal perito balistico del tribunale. Era una cassetta metallica piena di esplosivo contenuta in una borsa di similpelle nera. Ha sempre sostenuto il giudice istruttore Gerardo D’Ambrosio: «Se invece di farla saltare l’avessero aperta, avrebbero risolto il caso in pochi giorni».

Comunque a Milano si cerca “il mostro”, quello che prese il taxi. Un’indagine record: in meno di 72 ore il giornalista Bruno Vespa dà la notizia dell’arresto di Pietro Valpreda. E ripete convinto: «È il colpevole, uno dei colpevoli di Piazza Fontana». Anni dopo, Vespa si scuserà, a più riprese. Con l’arresto di Valpreda, l’inchiesta sembra chiusa. Valpreda, di modesta statura, capelli arruffati, è un ex ballerino. Ha solo qualche piccolo precedente penale. Rimarrà in carcere tre anni. È stato bloccato la mattina del 15 dicembre al palazzo di giustizia dove era stato convocato per una faccenda di volantini anarchici contenenti insulti al papa.

A “parlare” è il suo sedicente amico Mario Merlino, che in realtà è un neofascista infiltrato tra gli anarchici ed ha spifferato che al “Circolo 22 marzo”, gestito dal ballerino, c’era un deposito di armi. Nei locali della Questura milanese s’interroga il famoso tassista, Cornelio Rolandi, conducente di una Fiat 600 multipla. Gli chiedono l’identikit del presunto stragista, e subito dopo gli mostrano la foto di Valpreda. Il tassista viene trasferito a Roma il 16 dicembre. C’è il confronto. Rolandi osserva chi ha davanti: ex poliziotti, per nulla somiglianti all’anarchico, e Valpreda. «È lui!» dice il teste in dialetto milanese. Gli dicono: «Ma ha guardato bene?». Risposta: «Se non è lui, allora qui non c’è».

La sera dello stesso giorno i poliziotti fermano un altro anarchico, noto in Questura e considerato innocuo. È Giuseppe Pinelli, 41 anni, ferroviere, padre di due figlie piccole. Viene interrogato senza soste, ben oltre le 48 ore concesse dalla legge. Attorno alla mezzanotte cade dal quarto piano e muore. Era nell’ufficio del commissario Luigi Calabresi, che però in quel momento era assente. La ricostruzione del “suicidio” è costellata da contraddizioni da parte di agenti e carabinieri. Versione ufficiale: suicidio. Sono parole del Questore Guida. Precisazione: si è buttato perché sconvolto dalla “confessione” di Valpreda. Ci sono prove? No. Ed ecco che la Questura cambia versione: incidente per malore. Più precisamente “malore attivo”, come sentenzierà lo stesso giudice D’Ambrosio. Gli uomini in divisa sono prosciolti da qualsiasi accusa.

Il 15 dicembre è un giorno ricco di avvenimenti. Il ventottenne Guido Lorenzon, insegnante di scuola media nel Trevigiano e segretario di una sezione Dc, si confida con un avvocato. Dice di conoscere cose in stretta relazione con quanto è accaduto a Milano. Ha qualche esitazione perché è amico di Giovanni Ventura, giovane editore di idee neonaziste. Non vorrebbe tradirlo, ma Ventura, rientrato da Roma, gli ha fornito notizie inquietanti. In pratica è venuto a sapere che ci saranno altri sanguinosi attentati. Accompagnato dall’amico legale, s’incontra con il pm Pietro Calogero. È l’inizio di quella che sarà chiamata “la pista nera”. Lorenzon, pur riluttante, incontra Ventura con un microfono nascosto sotto la camicia e raccoglie prove che inchiodano sia Ventura sia il camerata Franco Freda, procuratore legale padovano, militante di Ordine Nuovo. Quel gesto costerà al buon Lorenzon minacce e e intimidazioni.

Freda e Ventura non sono nomi qualsiasi per la magistratura. Nella primavera del ’69 il commissario di polizia Pasquale Juliano ha fatto indagini a tappeto sulla cellula nera a Padova, sospettata dell’attentato terroristico compiuto nello studio del rettore (ebreo) dell’università. Malgrado la tenacia di Juliano, la pista nera non decolla, così come quella rossa, da qualcuno maldestramente ipotizzata. È nel ’71 che lo scenario cambia. A Castelfranco Veneto (nel Trevigiano) un muratore sta riparando un muro divisorio: cadono i mattoni, da un buco vede, nell’appartamento confinante, un arsenale di armi, munizioni ed esplosivi. Il proprietario della casa viene arrestato e confessa che quella «santabarbara è stata nascosta dall’amico Ventura dopo le bombe del 12 dicembre ’69». È interrogato un certo Pan, fattorino di Ventura, e rivela di aver ricevuto l’incarico di comprare delle cassette metalliche di marca Jewell, «per collocarvi dell’esplosivo». Era Jewell la cassetta esplosa a Milano. In un negozio di Padova viene comprata una valigetta Mosbach&Gruber, contenente quella trovata alla Commerciale di Milano. Il proprietario del negozio e una commessa raccontano di aver venduto quattro borse di quel genere a una sola persona, il 10 gennaio del ’69. Parte l’inchiesta, il rapporto arriva alla Questura di Milano e agli Affari riservati del ministero degli Interni, ma lì rimarrà in qualche cassetto per quasi tre anni.

I magistrati di Treviso sanno che Freda e Ventura, assieme ad altri camerati,  si incontrano spesso in una stanza dell’istituto universitario, dove lavora il bidello Pozzan, braccio destro di Freda. È interrogato e afferma che l’attentato al rettore poteva essere un prologo per attacchi futuri. E aggiunge una cosa importante: il 18 aprile ’69 c’è stata una riunione alla presenza di Pino Rauti, ex volontario della Rsi, collaboratore de Il Tempo di Roma, e creatore di “Ordine Nuovo” quale corrente interna al Msi. Ma poi il bidello – presente Rauti – ritratta ed è rinchiuso in carcere per falsa testimonianza. Raggiunto da un mandato di cattura per la strage milanese, il bidello viene “intercettato” dagli agenti del Sid (servizio segreto militare) e fatto espatriare in Spagna.

Nel frattempo, il giudice trevigiano Giancarlo Stiz emette un mandato di cattura con accusa di strage per Freda, Ventura e Rauti. Quel che segue (compreso lo spostamento a Catanzaro del processo) è una matassa difficile da dipanare. Altre azioni mieteranno morte. Il 2 agosto 1980 c’è la strage alla stazione di Bologna: 85 morti, 200 feriti. Si parlerà sempre più spesso di intrecci tra servizi segreti (“deviati”?) ed estrema destra. L’intenzione basilare, da Milano a Bologna, sarebbe stata quella di creare una situazione di disordine sociale tale da facilitare un colpo di stato militare. Forse ad opere di un personaggio assai opaco: J. Valerio Borghese.

Sono trascorsi 50 anni. Abbiamo in mano delle certezze? No. Gli attentati italiani vanno inquadrati in un contesto internazionale. Utile, per capire una straordinaria complessità eversiva, è il libro Dopo le bombe (Piazza Fontana e l’uso pubblico della storia, di autori vari, edito da Mimesis, 227 pagine, 18 euro). Viene riportata una frase profetica di Franco Fortini, critico letterario: «Non so come ma ho la certezza che con la strage di pochi giorni fa (1969, ndr), l’orrendo coro dei giornali e questo assassinio di Pinelli, è finita un’età, cominciata ai primi del decennio. È possibile il silenzio degli uomini dell’opinione, i difensori dello stato di diritto? Sì, è possibile. La paura è veloce».

Negli anni Sessanta era diffuso in Europa il timore che le forze di sinistra potessero andare al potere. Si cercò allora di costituire il “triangolo autoritario“; Atene, Lisbona, Madrid e, ovviamente, l’internazionale nera. Nei primi mesi del ’67 un gruppo di neofascisti italiani fu invitato a una riunione con “rappresentanti di gruppi esteri” a Lisbona. L’intento era quello di coordinare certe iniziative destabilizzanti. Si legge in un documento, frutto delle relazioni tra “Ordre et Tradition” e “Ordine Nuovo”: «1- Preparare gruppi di volontari, rispondenti alle caratteristiche del caso, disposti a trasferirsi per operazioni di lunga o breve durata in qualsiasi Paese estero; 2- Provvedere alla creazione di una rete di “agenti di collegamento” nei principali centri e città italiane…; 3- Provvedersi di adeguati mezzi bellici da fornire, se del caso, a elementi che dovessero essere inviati in Italia». In margine a questo decalogo, si legge che «Pino Rauti ha dichiarato che Ordine Nuovo ha già una sua struttura clandestina “operativa”, collaudata nel passato con operazioni terroristiche svolte, su commissione dell’Oas, sulla Costa Azzurra».

Sempre in quegli anni, si legge nel libro citato, «proseguiva la guerra mediatica contro Roma, dando grande enfasi (anche tramite giornali come Il Tempo, Candido, Il Borghese, Secolo d’Italia, Lo specchio) agli attentati del 25 aprile e dell’8 agosto, che mostravano la necessità di una svolta autoritaria anche in Italia». Si fa poi notare che non erano pochi i politici, i militari e gli imprenditori italiani favorevoli alla soluzione golpista. C’è da dire che alcuni rapporti di tal fatta furono fatti cadere perché ritenuti apocrifi. È indubbio che l’autunno caldo operaio e sindacale del ’69 creò un clima di tensione, specialmente nella classe industriale. Venne a galla la famosa “maggioranza silenziosa”. Commissioni parlamentari d’inchiesta e indagini della magistratura hanno acquisito documenti che, sia pur molto diversi tra di loro, evidenziano collegamenti tra politica e apparati dell’intelligence militare del Sid. Si legge nel saggio di Davide Conti (sempre tratto dal libro della Mimesis) che «il caso più noto e clamoroso in ordine a tali rapporti fu quello di Guido Giannettini, agente Z, le cui relazioni per i servizi segreti militari furono trovate in una cassetta di sicurezza in uso al neofascista Giovanni Ventura, poi individuato dalla magistratura come componente della cellula di Ordine Nuovo responsabile della strage di piazza Fontana».

Aldo Moro, nel suo famoso “Memoriale”, fornì inquietanti indicazioni: «La cosiddetta strategia della tensione ebbe la finalità, anche se fortunatamente non conseguì il suo obiettivo, di mettere l’Italia nei binari della “normalità” dopo le vicende del ’68 e il cosiddetto autunno caldo. Si può presumere che Paesi associati a vario titolo alla nostra politica e quindi interessati a un certo indirizzo vi fossero in qualche modo impegnati attraverso i loro servizi d’informazione. Su significative presenze della Grecia e della Spagna fascista non può esservi dubbio e lo stesso servizio italiano (…) può essere considerato uno di quegli apparati italiani sui quali grava maggiormente il sospetto di complicità». L’allora segretario della Dc, continua lo studioso, «sottolineò l’inattendibilità della “pista anarchica” in ordine alla responsabilità della strage e contestualmente indicò il ruolo “preminente” avuto dal Sid, quello “pure esistente” ricoperto dalle forze di polizia e soprattutto la matrice “vistosamente nera” della strage». Ci sono poi le memorie dell’ex ambasciatore Edgardo Sogno: pur sostenendo di «non credere alla tesi della strage di Stato», affermò di essere stato informato, molto prima della bomba di piazza Fontana, di un’imminente campagna di atti terroristici. Che ci furono. Come ci fu un’ondata di morte e di paura. Era l’Italia di quegli anni, di cui è necessario conservare la memoria.

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