Raoul Precht
Periscopio (globale)

Le donne di Margaret

Con il nuovo romanzo, "I testamenti", Margaret Atwood si conferma grande narratrice di identità femminili. Sempre con grande attenzione ai temi più delicati delle nostre vite (difficili): l’ossessione, il tradimento, la moralità

Il 10 settembre è uscito, in contemporanea in tutto il mondo, uno dei romanzi più attesi dell’anno, destinato a un sicuro successo di pubblico. Mi riferisco a I testamenti (The Testaments) di Margaret Atwood, libro che si riallaccia al romanzo più famoso della scrittrice canadese, Il racconto dell’ancella (The Handmaid’s Tale), scritto nel 1984 e uscito l’anno successivo. Subito dopo la sua pubblicazione, I testamenti (edito in Italia da Ponte alle Grazie, nella traduzione di Guido Calza) è stato subito osannato da gran parte della critica e ha ottenuto di slancio il Booker Prize, o almeno metà dello stesso, visto che per la prima volta in tanti anni, e non senza qualche polemica, questo premio è stato conferito ex aequo a due romanzi.

Come ormai tutti sanno, si tratta di un sequel del primo libro, in cui la narrazione (costituita da testamenti e documenti tratti da un archivio) è affidata a tre voci distinte: quella di zia Lydia, uno dei personaggi più negativi e odiosi del Racconto dell’ancella, vista qui però in una diversa dimensione; quella di Daisy, che è stata messa in salvo in Canada da bambina e si è quindi potuta sottrarre al regime totalitario imperante nella Repubblica (immaginaria ma non troppo) di Gilead; e infine quella di Agnes, che invece in questo Stato cristiano integralista è nata e sempre vissuta. Sebbene i fatti si svolgano quindici anni dopo le vicende che ruotavano intorno a Offred, protagonista del primo romanzo, il punto di partenza è il medesimo, ossia la raffigurazione di un’America distopica in cui vige un regime teocratico e tradizionalista, che introduce rigidi ruoli sociali relegando le donne fertili a una funzione di mera riproduzione, mentre le altre, sterili, saranno semplice manodopera per le mansioni più modeste, oppure sorveglianti e aguzzine, o magari perfino padrone, ma anche in questo caso private di ogni diritto. Anche qui, come nel romanzo precedente, gli echi dei capolavori di Huxley e Orwell, ma anche della prima distopia moderna, Noi di Zamjatin, sono incontestabili quanto, in fondo, trascurabili.

A metà fra romanzo gotico e racconto di spionaggio – si cerca in definitiva di capire modalità e ragioni del crollo del regime di Gilead grazie all’attività di una rete di oppositori interni, denominata Mayday –, il romanzo è incalzante, con una particolare attenzione, tipica della Atwood, nei confronti di elementi che a prima vista possono apparire accessori ma che non lo sono, come il ruolo svolto dal linguaggio e dalle manipolazioni linguistiche nella creazione di una dittatura. Noi che abbiamo smarrito, in tempi peraltro nemmeno dittatoriali ma solo fintamente democratici, il senso di parole come “libertà”, “patria” od “onestà”, a queste considerazioni dovremmo essere particolarmente ricettivi. Ma i motivi d’interesse sono numerosi: per esempio, la maestria con cui è delineato il personaggio fino a questo momento insopportabile di zia Lydia, che ci racconta una versione inaspettata non solo della sua vita, ma anche e soprattutto dei meccanismi che hanno portato all’istituzione della dittatura. Per non parlare dell’immagine generale della donna, certamente vittima ma anche, quando se ne danno le possibilità, aguzzina nei confronti del proprio stesso sesso, e in ogni caso capace di manipolazioni e abusi di potere che portano a dubitare fortemente della sua pretesa innocenza. È anzi solo grazie al beneplacito e all’attiva partecipazione di molte donne, suggerisce la Atwood, che il regime può mantenersi in vita e, almeno per un certo periodo, rafforzarsi.

Forse è anzitutto proprio questa descrizione accurata, inflessibile e non manichea della donna a percorrere, vero e proprio fil rouge, tutta la produzione della scrittrice, dalle prime poesie di The Circle Game all’ultimo romanzo. Anche senza voler entrare in modo troppo approfondito nella diatriba critica che accompagna da sempre l’interpretazione delle motivazioni sottese all’agire di Offred (ovvero “di Fred”, in quanto appartenente al suo signore e padrone) nel Racconto dell’ancella – personaggio visto da alcuni come una conformista e silente fiancheggiatrice del regime, da altri come un’eroica ribelle, da altri ancora come una semplice testimone – sta di fatto che tutti i personaggi femminili dei romanzi e racconti della Atwood presentano delle caratteristiche non univoche, e anzi estremamente variegate. È raro che il lettore possa simpatizzare e perfino immedesimarsi in una delle protagoniste; al contrario, vi sarà sempre un elemento di sorpresa o perfino di disturbo. Prendiamo a titolo d’esempio uno dei suoi maggiori romanzi, Bodily Harm, scritto nel 1981, che tra l’altro non mi risulta ancora tradotto in italiano. La protagonista Rennie è una giornalista free-lance di Toronto specializzata in “lifestyle”, che scrive dunque articoli molto brillanti ma superficiali sulle varie mode e tendenze del momento. La superficialità sembra anzi essere la cifra alla quale ispira tutta la sua vita e il suo rapporto con gli eventi, che si tratti di una relazione sentimentale stabile ma difficile, di un intervento di mastectomia al quale deve sottoporsi, dell’infatuazione momentanea per il medico curante o di una singolare effrazione nel suo appartamento. Rennie non si è mai impegnata in nulla, e anche stavolta, messa di fronte alla necessità di affrontare questioni complesse, decide di fuggire, rifugiandosi con un pretesto lavorativo in un’isola dei Caraibi, dove, da turista, immagina di essere esente da qualunque coinvolgimento emotivo. Naturalmente i conti non tornano: pur non prendendovi parte direttamente, Rennie resterà impigliata negli sconvolgimenti politici locali e ne sarà infine travolta. La severità e la distanza con cui la Atwood ci presenta la personalità di Rennie impedisce l’immedesimazione e rappresenta in qualche modo anche il limite del libro, più incline a mostrarci le conseguenze politiche e ideali delle azioni compiute che il meccanismo mentale e sentimentale che a tali azioni conduce. Resta però un romanzo che mostra una notevole padronanza dei mezzi narrativi e un atteggiamento nei confronti dei personaggi acuto e spietato, che non fa davvero sconti a nessuno.

Per fare un altro paio di esempi, con Cat’s Eye (Occhio di gatto) del 1988 la Atwood mette in scena uno scontro all’ultimo sangue fra due donne, una pittrice canadese piuttosto rinomata e l’amica del cuore della sua adolescenza, che ora la perseguita. Non a caso, il libro è stato definito da alcuni critici come una specie di Signore delle mosche al femminile, che mostra di quanta crudeltà le donne possano macchiarsi. Gli stessi temi – l’ossessione, il tradimento, la moralità – ritornano in The Robber Bride (La donna che rubava i mariti), del 1993. Non è quindi un caso che la Atwood sia stata prima osannata, poi osteggiata e vilipesa dal femminismo più estremistico. Se da un lato è considerata la fondatrice, almeno nel Canada di lingua inglese, di una fiction femminista incentrata sulle disparità di genere e sull’oppressione sociale di cui le donne sono spesso vittime, dall’altro tutta una frangia di agitatrici e, ahinoi, docenti universitarie, nell’ottica dei cosiddetti “gender studies”, la attacca a ogni piè sospinto per non essere, a loro parere, abbastanza radicale; o forse, semplicemente, per aver avuto successo perfino nel bieco universo maschile dell’editoria. Il punto più alto o, se si vuole, più basso di questa polemica fu raggiunto nel 2015, quando Margaret Atwood difese pubblicamente Steven Galloway, uno scrittore e docente universitario ingiustamente accusato di aver insidiato una studentessa, il quale era stato ipso facto (e senza alcuna prova) sottoposto a una vera e propria gogna mediatica, con gravi conseguenze personali e professionali. Questo “tradimento” non le è mai stato perdonato dalle organizzazioni femministe.

Ma, lo ripeto e insisto, è sufficiente leggere con attenzione i romanzi e racconti della Atwood per rendersi conto del fatto che la scrittrice è del tutto impermeabile al politically correct, a schemi prefissati e idées reçues, e che le interessa, anche nei personaggi minori, ristabilire una verità che tenga conto di luci e ombre, possibilmente di tutte le luci e di tutte le ombre. Così avviene, per fare qualche altro esempio, nelle raccolte di racconti Dancing Girls (1977), Bluebeard’s Egg (1983), Wilderness Tips (1991), Good Bones and Simple Murders (1994) e Moral Disorder (2006), o nei romanzi Alias Grace (L’altra Grace), del 1996 e The Blind Assassin (L’assassino cieco), del 2000 – altro Booker Prize alla sua uscita -, dove alla loro infelicità le donne reagiscono di volta in volta adottando strategie diverse, che possono andare dalla rivolta piena all’accettazione altrettanto piena, ma passando attraverso un’infinità di varianti ed espedienti che consentono la sopravvivenza e talvolta una faticosa emancipazione. Per la Atwood le donne avvertono più degli uomini l’incomunicabilità e l’incomprensione che sembrano essersi impadronite del mondo contemporaneo, e questo le rende più interessanti dal punto di vista narrativo e anche più pronte a cogliere e aprire eventuali spiragli di opposizione e riscossa. Quale ultima, estrema soglia conta la sopravvivenza a qualunque costo, che è poi la caratteristica che la Atwood stessa, fin da un primo libro di saggi scritto nel 1972 (Survival, appunto), attribuisce in particolare al Canada e alla sua letteratura. La storia del Canada è quella della resistenza a condizioni ambientali estreme, che si riflette in una strenua ricerca delle origini e di un’identità territoriale basata sulla conoscenza anzitutto di se stessi. Non è un caso che spesso le sue protagoniste siano donne in fuga, estranee al loro ambiente, che si rifugiano in un altrove dove sperano di trovare o di costruire una nuova identità. Le metafore legate al viaggio e all’estraneità sono quindi molto presenti in tutta la sua opera, così come non mancano le allusioni alla vocazione onnipervasiva, assimilante e in sostanza imperialistica dello scomodo vicino, gli Stati Uniti.

Un altro filo conduttore nei racconti e romanzi della Atwood fin dai primi libri, The Edible Woman (La donna da mangiare) e Surfacing (Tornare a galla), rispettivamente del 1969 e del 1972, è la preoccupazione per lo sfruttamento indiscriminato dell’ambiente e le possibili deviazioni di una tecnologia che diventa col passare del tempo sempre meno controllabile. Sono aspetti, questi, che s’impongono prepotentemente in alcuni suoi testi, come nel recente (2015) The Heart Goes Last (Per ultimo il cuore) o nella serie fantascientifica The MaddAddam Trilogy, per la quale tuttavia la Atwood, da sempre allergica alle etichette, preferisce la definizione di “speculative fiction”. Un interesse, questo per la scienza e la tecnologia nonché, appunto, per la speculazione filosofica, che ne rende le storie e le trame ancora più interessanti e attuali.

Si dà ora il caso che proprio oggi questa determinata e tenace signora canadese compia ottant’anni. È stata certamente un’annata difficile, non solo per il clamore e gli impegni che hanno accompagnato l’uscita mondiale dell’ultimo libro, ma anche, nel privato, per la perdita, il 18 settembre scorso, del compagno, lo scrittore ambientalista Graeme Gibson, con cui viveva da più di quarant’anni e da cui nel 1976 ha avuto una figlia. Ma è appunto anche l’anno di un compleanno per così dire tondo, importante, e vorremmo, anche in segno di gratitudine per tutte le belle ore che da semplici lettori ci ha fatto passare sui suoi testi, augurarle ogni bene nonché – davvero – cento di questi giorni.

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