Lidia Lombardi
Lo scaffale degli editori

Roma Amor

È il titolo del nuovo libro di Paolo Portoghesi, fatto di memorie e idee di futuro, ma anche il filo rosso che lega altri due volumi dedicati alla Città eterna: quello di Walter Veltroni e Claudio Novelli - un diario di ieri per orientarsi nell’oggi - e la ricognizione prospettica tracciata da De Masi e altri sociologi degli scenari urbani nel 2030

È un risarcimento per chi ama Roma, una coltellata per chi se ne fa ancora illudere Roma Amor, il nuovo libro di Paolo Portoghesi, l’architetto della Moschea di Monte Antenne, il professore di Valle Giulia, il direttore della Biennale all’epoca di Craxi, l’esegeta del barocco e dell’art nouveau. Quattrocento pagine edite da Marsilio (22 euro) che sono insieme memoria e idea di futuro, identikit di Portoghesi e indagine attorno alla Capitale odiosamata, dove egli nacque nel 1931 e dove ancora progetta, per esempio un nuovo complesso residenziale a Talenti, propaggine della città che guarda la campagna tra Salaria e Nomentana.

Un libro diviso – ma non schematicamente – in tre parti. Autobiografica, un storia lunga che parte dagli anni Quaranta, attraversa il boom e il Sessantotto, i rampanti Ottanta, i ripiegati Duemila; professionale, nella quale Portoghesi analizza i progetti realizzati e quelli che non hanno visto la luce (tra questi ultimi lo Spazio di Meditazione all’interno della Camera dei Deputati, pensato per percepire il Sacro che precede ogni religione); profetica, sulla proposta, meglio, la speranza di cambiamento, per la città e per il mondo. Ed è qui che l’analisi politica – in senso lato, di programma per gli abitanti del pianeta – si sposa con una saggezza ecumenica. Portoghesi, avvicinatosi alla fede leggendo i testi di Benedetto XVI, osserva: il 2018 è stato l’annus horribilis delle devastanti alluvioni in Italia e degli sconvolgenti incendi oltre Oceano. Il segno di un’Apocalisse prossima ventura o l’avvertimento che il fondo è stato toccato e spetta ora all’architetto di curare le città, via via riducendo la forbice tra chi sperpera ancora risorse e territorio e chi è passato dalla «spensieratezza consumistica alla mancanza del necessario»?

Ma prima la narrazione è stata appunto scandita da Roma, disegnata anche nel dialetto e nel cibo (le zucchine scanalate come «colonne doriche», i carciofi simili a «cupole coperte di squame»…). Ecco la casa dove nacque, in via Monterone, e la introiezione della città da ragazzino («imparai a darle del tu») affascinato soprattutto da due architetture, entrambe di Borromini: l’Oratorio dei Filippini (palazzo o chiesa?, l’interrogativo suscitato dalle troppe finestre e dal timpano) e la cupola di Sant’Ivo alla Sapienza, («il regno delle rondini e della tramontana» secondo l’immagine poetica di Sinisgalli). Le epoche vengono snocciolate insieme agli appartamenti abitati nella Capitale con Giovanna Massobrio, la sua sposa conosciuta durante gli anni dell’insegnamento al Politecnico Milano, complice di entusiasmi vitalistici e intellettuali, del progetto anche personale di natura-architettura, reificato nella scelta finale di vivere a Calcata, in mezzo a un giardino popolato di bellissimi animali, dall’asino alla gru. C’è l’abitazione in piazza Rio de Janeiro, sulla Nomentana; l’attico a Porta Pinciana, minuscolo su un torrino realizzato da Mario Ridolfi (Portoghesi collaborò con lui e con Quaroni, Aymonino, Argan, Zevi); la casa più amata, in via Gregoriana, con l’eco di D’Annunzio e la passione per gli arredi liberty.

Una città fervida di incontri, conciliante, illuminata. Sulla scia della vitalità intellettuale degli anni Cinquanta, quando Portoghesi andava nella trattoria di vicolo Campana anche per vedere seduti ai tavoli i suoi “idoli”: Moravia e Vespignani, Flaiano e Antonioni, Ungaretti e Pasolini. Già, Pasolini. È la figura ricorrente di questo Roma Amor: perché le periferie da lui narrate sono le stesse nelle quali Portoghesi intravede la possibilità della rinascita di Roma. Che per fortuna ha mantenuto uno sviluppo orizzontale, non è stata snaturata dall’invasione dei grattacieli, e dunque può tentare di saldare il centro storico ai quartieri ai suoi margini, come il palmo di una mano si dirama nelle dita. C’è ancora vitalità, sostiene Portoghesi, in borgate come il Trullo, nelle quali la piazza, il mercato, il cinema rimangono snodi di solidarietà. Mentre agguati di giorno in giorno oscurano l’immagine di Roma tra «degrado, disordine, pigrizia acritica». E la sviliscono fenomeni “scandalosi”. Due esempi recenti, accettati dalle ultime due amministrazioni comunali: il parcheggio di via Giulia e lo stadio nella zona Magliana.

Ancora tanta Capitale nello scaffale degli editori. Walter Veltroni firma con Claudio Novelli Roma. Storie per ritrovare la mia città (Rizzoli, 390 pagine, 19 euro). È il diario dei giorni vissuti da sindaco, succedendo a Rutelli e guidando una città che cresceva, in termini di Pil e di occupazione «tre volte più del resto del Paese». La ricetta passava anche per l’attenzione alla ricucitura tra centro e periferie, oltre che da una effervescenza culturale espressa bene dal varo dell’Auditorium Parco della Musica e dalla nascita della Festa del Cinema. Non esente tuttavia da momenti tragici, come il crollo della palazzina di via Ventotene per una fuga più volte segnalata. E da una spesa pubblica che certamente sarebbe stata bocciata da Bruxelles.

Il sociologo Domenico De Masi in Roma 2030 (Einaudi, 448 pagine, 20 euro) insieme ad altri dodici grandi conoscitori del sistema urbano, delinea, con abbondanza di numeri e statistiche, lo scenario della città da qui ai dieci prossimi anni isolando le sue tre anime: metropoli, capitale d’Italia, città-mondo. Il nocciolo della questione è la capacità di affrontare e risolvere i problemi amministrativi. Ma soprattutto recuperare una visione alta di quella che fu una volta “caput mundi”, coerente con il suo particolarissimo genius loci. Londra, Berlino, Parigi hanno già programmi fino al 2030, Roma cambia continuamente assessori e cda delle municipalizzate. Ben vengano le proposte dei sociologi, ma consentiteci di restare scettici.

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