Leopoldo Carlesimo
Una “disavventura” namibiana

La diga di Santo

«Santo Lagreca era piemontese di nascita, ma di origini calabro-lucane. Uno dei figli dell’immigrazione Fiat anni Cinquanta. La moglie, Kathy, era una delle donne più in vista di Windhoek. Era ricca, la famiglia di Kathy era molto ricca. Santo, figlio di operai, non aveva un soldo»

Il canyon correva parallelo alla linea dell’orizzonte, tagliato nella parete di roccia chiara. Sotto, una larga striscia di sabbia gialla dava solo una lontana idea di quel che avrebbe dovuto essere il letto di un fiume. Angelo si avvicinò al ciglio della scarpata. Pochi passi sul duro sentiero di ciottoli.

“Non c’è neanche un filo d’acqua.” Disse.

Una cinquantina di metri dietro di lui, Santo assentì.

“Il fiume porta acqua solo per tre mesi all’anno,” disse. “Ma ce n’è sotto. Se scavi nella sabbia, trovi l’acqua.”

Angelo strinse le labbra e aggrottò la fronte. Che razza di posto, pensò. Almeno un fiume dovrebbe esserci. Questo gli pareva il requisito minimo. Si parlava di costruirci su una diga…

“Se scorre solo per tre mesi all’anno, quanto tempo ci metterà il lago a riempirsi?”

“Poco,” rispose Santo. “Ci metterà poco. Per nove mesi il fiume è asciutto, ma nei restanti tre arriva una valanga d’acqua. Piove cento chilometri più a sud, sulle alture. Quelle vette isolate sono una calamita che attira i temporali estivi. L’acqua scende dalla montagna e si concentra tutta qui, in questa gola. Il Fish River è noto per le sue piene improvvise. In poche settimane riempirà il lago.”

“E’ molto grande il lago?”

“Abbastanza. Risalirà il letto del fiume a monte per quaranta chilometri. Sommergerà il canyon.”

L’intero terrirorio, in quella regione, era tutt’un intrecciarsi di canyon. I corsi d’acqua stagionali, che esistevano solo durante le violente piogge, avevano inciso il loro percorso nella roccia friabile. Scisti. Marne. Arenarie. Un dedalo di fenditure scavate nella scorza dell’altopiano dalle piene di corsi d’acqua irruenti e selvaggi; pareti erose, quasi verticali, scolpite in profondità dalla forza dell’acqua. A poca distanza da lì, c’era il secondo canyon più grande al mondo dopo quello del Colorado. Un paese di canyon e deserti. Due deserti, uno più interno, l’altro costiero, racchiudevano una stretta fascia di territorio arido e disabitato.

Più tardi, a Keetmanshoop, tornarono sulla questione.

“Siete proprio sicuri che si riempirà?” Chiese Angelo.

L’ufficio era uno stanzone ampio e spoglio ricavato sul lato corto di una vasta baracca di putrelle d’acciaio, chiusa da blocchetti di cemento grezzo e coperta da un tetto di lamiera. Malgrado i condizionatori, ci faceva un caldo soffocante. L’aria era secca, asciugava gole e narici, sturava orecchi. Comparvero delle birre, contro il petto di una ragazza. Sei grandi boccali su un vassoio di latta. La ragazza che lo portava indossava abiti tradizionali, sciatti e logori. Non aveva nulla di notevole salvo il vassoio. Lo depose sul tavolo con malagrazia e si ritirò. La birra era calda, ma buona.

Era il circolo dei farmers. La parte maggiore del capannone era adibita a deposito di attrezzi agricoli e fertilizzanti. Poi c’era una specie di sala per riunioni o conferenze e quell’angolo attrezzato a bar, col bancone, lo scaffale di bottiglie, la rastrelliera di boccali, la specchiera e tutto il resto. Santo Lagreca fece le presentazioni. C’erano diversi rappresentanti dei farmers. Il presidente del circolo, il segretario della Farmers’ League e i rappresentanti degli agricoltori di Mariental, Wisteritz e Landau. Uno di loro spiegò i disegni sul piano di legno grezzo e cominciò a tracciarvi delle linee. Le linee illustravano i percorsi dell’acqua. I farmers conoscevano il percorso di ogni singolo ruscello, di ogni singolo rivoletto d’acqua che le piogge facevano sgorgare sulle alture e poi alimentavano riversandovi miliardi di metri cubi d’acqua che scendevano dall’altopiano fino in pianura, erodendo la roccia e incidendovi il proprio segno di quella stagione. I ruscelli confluivano in torrenti, e i vari farmers, discutendone e tracciando segni con la matita e correggendosi a vicenda, disegnarono i percorsi di quei torrenti invisibili, che sulla mappa che non erano riportati: la rete di fiumare stagionali che per tre mesi all’anno irrorava l’altopiano e ne modellava la superficie, alimentando il Fish River. Tutta quell’acqua che stagione dopo stagione bagnava le alture e scavava canyon sarebbe passata attraverso la strettoia di quella gola. E’ lì che i farmers l’aspettavano. E’ lì che volevano la diga. La desideravano intensamente. Accarezzavano l’albero di corsi d’acqua – gli esili capillari diffusi sull’altopiano che si raccoglievano in rami sempre più robusti e decisi a mano a mano che scendevano giù in pianura, fino alla valle del Fish River – disegnandolo sulla mappa. Il loro oggetto del desiderio. Tracciarono altri percorsi, passandosi il mozzicone di matita, fino a quella strettoia dove sbarrarono il canyon con un perentorio segno nero.

***

Due ore dopo, quando la discussione era ormai conclusa, li raggiunse il governatore. Era un ometto piccolo, giovane, dai modi rudi e dal tono di voce autoritario e arrogante. Era il più giovane governatore del Paese e la sua carriera politica, fino ad allora molto brillante, annetteva grande importanza alla costruzione della diga.

“Ma dovete far lavorare le imprese del posto,” disse. Parlò per più di un’ora, ma in sostanza fu tutto ciò che disse.

Poi, finalmente, andarono a cena.

Il ristorante dove lo portò Santo era dentro un albergo. Non lo stesso dove alloggiavano. Quello dove alloggiavano era il miglior albergo di Keetmanshop, una costruzione abbastanza moderna, decentemente arredata, accettabilmente pulita, con delle camere ampie e una bella luce. A cena invece andarono in un albergo molto più piccolo e vecchio, una specie di rudere d’epoca coloniale. Una sudicia stamberga di legno e pietra, col tetto a spioventi e un’aria straniera, in quell’avamposto di capannoni e deserti: pareva una specie di antica baita alpina, col pianterreno adibito a ristorante e due o tre camere ricavate alla meglio al primo piano. Aveva un nome tedesco e dietro una scrivania buttata in mezzo all’ingresso, che nelle intenzioni del proprietario faceva da reception, era appeso un cartello che chiamava le camere ‘frei zimmer’. Il proprietario aveva un accento tedesco e un faccione largo e rossiccio, perennemente aggrondato, riempito di lentiggini e di baffi fulvi e di folte sopracciglia bionde.

“Ci si mangia lo stinco,” aveva detto Santo Lagreca. “Ci mangi uno stinco che neanche a Monaco.”

Perciò lo aveva portato lì. Ordinarono due stinchi, e della birra, e mentre aspettavano di essere serviti Santo tornò ancora su quel punto. E sottolineò una volta di più, casomai ce ne fosse stato bisogno, quanta importanza aveva per i farmers quella diga, e per il Paese il piano di sviluppo agricolo della regione, e quanto contava tutto ciò per il governatore. Poi il proprietario del ristorante si avvicinò e si sedette al tavolo, a chiacchierare con Santo. Lo conoscevano tutti, Santo Lagreca, da un capo all’altro del Paese. Non un grande Paese. Poco più di un paio di milioni d’abitanti dispersi su un territorio esteso quasi il triplo dell’Italia. Coloni e discendenti di coloni incrociati con indigeni e discendenti di indigeni incrociati con coloni. E neanche uno di loro che non sapesse chi era Santo Lagreca.

***

Santo Lagreca era piemontese di nascita, ma di origini calabro-lucane. Uno dei figli dell’immigrazione Fiat anni Cinquanta. La moglie, Kathy, era una delle donne più in vista di Windhoek. S’erano conosciuti in Italia, quando frequentavano entrambi l’università a Torino. Lei aveva dei lontani ascendenti in Piemonte: un nonno di Cuneo, una prozia ebrea tedesca trapiantata nell’astigiano, roba così. Ma era nata e aveva vissuto fino ad allora in Namibia e la sua famiglia aveva popolato quella colonia per quattro generazioni. La schiatta di Kathy Tomasi aveva attecchito in quel Paese fin dagli inizi del secolo, e dopo quattro generazioni era un coacervo di meticciati. In casa sua, a Windhoek, si parlava inglese e tedesco e italiano e numerosi dialetti del posto, e spesso diverse di queste lingue confluivano in un’unica frase. La parlata della famiglia Tomasi era un miscuglio di idiomi e anche Kathy aveva elaborato il suo proprio pidgin ed era anche lei un intreccio di meticciati: aveva i capelli crespi da creola, ma gli occhi chiari, e la carnagione brunita delle creole e labbra carnose e le forme abbondanti delle africane ed era bella. E poi era ricca, la famiglia di Kathy Tomasi era molto ricca.

Santo, figlio di operai, non aveva un soldo. S’innamorarono da studenti, probabilmente davvero, e per un po’ di tempo non contò il fatto che Kathy fosse ricca e lui povero.

Solo che i suoi soldi Kathy – o meglio la famiglia di Kathy – li aveva laggiù, in Namibia. Soldi fatti all’epoca delle colonie. Terreni. E immobili. E partecipazioni a miniere di diamanti. E farm, migliaia d’ettari di farm. Roba che valeva una fortuna, ma non poteva essere mossa da laggiù. E anche se Kathy aveva molti fratelli e la sua famiglia era una classica grande famiglia coloniale africana, ramificata e numerosa e stratificata di razze e di incroci diversi, laggiù ce n’era in abbondanza per tutti. La famiglia di Kathy Tomasi era un complesso articolato, unito e molto agguerrito di meticciati. Il che aveva un suo senso e un posto di rilievo, in Namibia, e prosperava da quattro generazioni laggiù.

Così, quando si laurearono e poi si sposarono, Angelo la seguì in Africa, perché era lì che stavano i soldi. Seguì lei, la sua bellezza e il richiamo dei suoi quattrini. In qualche modo, s’infilò in quella famiglia, in quella dinastia di ex-colonizzatori tedeschi e inglesi e italiani. E ora meticci, tutti quanti. E una volta laggiù, i soldi cominciarono a contare.

Quando lo conobbe Angelo, lui e Kathy abitavano in una bella casa, a Windhoek, una della tante proprietà di famiglia, e avevano tre o quattro marmocchi tra i cinque e i tredici anni e Santo guidava una Porsche Panamera. Ma non aveva perso quel vizio, si dedicava ancora agli affari. Coi quattrini di lei. E lei si dedicava a rimediare ai guai che lui combinava coi suoi quattrini, cioè con quelli della sua famiglia. Kathy si affannava a turare le falle che lui apriva in quel solido scafo, e a proteggere le murate della nave di famiglia che lui minacciava di affondare, e a recuperare almeno una parte delle somme che lui dilapidava, e assieme a quelle anche una parte della reputazione e credibilità che lui minava, all’interno della famiglia e fuori di essa. Con tutti quegli affari sballati, senza capo né coda. Non perché fosse uno spendaccione o un gaudente. Non era neanche troppo disonesto, non più della media. Solo che era incapace. Santo Lagreca s’era messo in testa di fare l’uomo d’affari, l’imprenditore. Coi soldi di lei e della sua famiglia. E non era capace.

I parenti di Kathy all’inizio gli diedero spago, perché Santo sapeva parlare. Sapeva raccontarla, da bravo guappo italiano, e ci sapeva fare con gli uomini e con le donne, e in fin dei conti s’era anche procurato una laurea al Politecnico di Torino, il che laggiù assicura un certo rispetto, e tutti loro nei primi tempi gli credettero e lo seguirono nelle sue iniziative. Piccole speculazioni edilizie a Windhoek; una strada da costruire nel nord del Paese, al confine con l’Angola; una nuova area banchinabile nel porto di Luderitz. Disastri. Ci rimisero un bel po’ di quattrini e allora la verità su Santo venne a galla e i familiari di Kathy capirono con chi avevano a che fare. Non piacque, agli altri membri della dinastia Tomasi, il modo in cui Santo spolpava la loro fortuna.

Così ci furono degli screzi, in famiglia, e alcune discussioni famigliari non proprio piacevoli, ristrette e allargate, e qualche piccolo processo semi-tribale, alla maniera africana che i ricchi meticci delle colonie avevano adottato, perché gli veniva dalla quota di sangue indigeno, un pezzo d’identità che aveva un valore laggiù e di cui andavano a loro modo fieri. E dopo questo Santo fu messo in disparte, quanto meno nelle questioni d’affari, e gli fu eretta una specie di piccola gabbia intorno, e Kathy ebbe l’incarico di sorvegliare quella gabbia.

Questa era la situazione che aveva più o meno reso innocuo Santo, all’epoca in cui cominciò a profilarsi l’affare di Assartal.

La diga di Assartal ebbe uno strano effetto non solo sulla famiglia di Kathy, ma anche su parecchie altre famiglie importanti del luogo, e un po’ su tutto il Paese. Un effetto inebriante, e stordente, quasi euforico. Qualcosa di simile a una fumata di quello buono, o a una sbronza felice. Ma più durevole, e più rischioso. E finché durò l’effetto-Assartal, la guardia di Kathy e della sua famiglia si abbassò.

La gabbia s’era quasi chiusa, attorno a Santo Lagreca. Ma quando apparve all’orizzonte l’affare della diga, a mano a mano che prendeva forma e corpo il progetto dell’opera, misteriosamente la gabbia si riaprì. E Santo sgattaiolò fuori, di nuovo libero. Assartal era una torta troppo invitante e aveva troppa importanza laggiù e questo diede alla testa un po’ a tutti: ai farmers e al governatore e anche alla famiglia Tomasi e a diverse altre famiglie di peso a Windhoek e dintorni. Che a costruirla fosse un’impresa italiana e che Santo fosse un ingegnere diplomato in Italia, non sfuggiva a nessuno.

Così, grazie ad Assartal, Santo riuscì a riconquistare un po’ di dignità e di libertà d’azione, in seno alla famiglia e anche fuori. E poté ricominciare a usare il loro nome ovunque. Ricominciò a farsi chiamare Santo Lagreca-Tomasi. Perché quello era l’affare più grosso del Paese e tutti volevano starci dentro. Ed era fuor di dubbio che Santo, per diverse ragioni, era l’anello di congiunzione ideale, e tutti, ma proprio tutti quelli che contavano laggiù, cercavano un canale per partecipare alla costruzione dell’opera e ai quattrini che le giravano intorno.

Le cose stavano grossomodo così quando Angelo lo conobbe, e questo è più o meno tutto quel che c’è da sapere sul passato di Santo Lagreca, coniugato Tomasi, il socio che la Compagnia s’era scelto. O era stata obbligata a scegliersi, o s’era ritrovata addosso, attaccato come una piattola, in rappresentanza degli interessi di farmers e governatori e di un bel po’ di famiglie importanti laggiù. Angelo lo frequentava da cinque giorni e aveva già capito parecchie cose sul suo conto. Davvero un bel socio, pensò, mentre si dava da fare con lo stinco e la montagna di kartoffeln che gli rovesciarono nel piatto.

***

Un vento freddo e teso batteva la pianura. Sollevava polvere. Non aveva mai sentito tanto freddo in Africa. Il pick-up del farmer si fermò sull’altura.

“Quelle sono le dune del Kalahari,” indicò.

Si vedeva una sottile linea ondulata, arancio chiaro, sotto l’orizzonte di nuvole basse.

“Quello invece è il Namib,” disse, indicando dalla parte opposta.

“Sembra che i due deserti abbiano deciso di congiungersi,” disse il farmer. “Avanzano uno verso l’altro di alcune decine di metri l’anno.”

Il farmer si chiamava Joe ed era un meticcio. La sua farm era una delle più piccole della regione, ma s’estendeva comunque per quasi duemila ettari lungo un tratto della sponda sinistra del Fish River. Non si coltivava quasi nulla nella farm. C’erano piccolissimi appezzamenti irrigati da pozzi. Tutto il resto era un’arida spianata di sterpaglia e sassi. Gli unici animali in grado di pascolarvi erano delle capre e alcuni branchi di kudu. Bestie dagli zoccoli duri come basalto, che sprigionavano scintille battendo sul terreno pietroso e improduttivo. E struzzi, la farm ospitava anche degli struzzi.

Joe non la utilizzava per cacciare. A differenza delle altre farm della zona, nella sua non c’era neanche un resort, né una game reserve, né niente del genere. Avrebbe potuto organizzare delle battute, per i kudu e per gli struzzi. Ma non ne avrebbe ricavato molti quattrini. I resort del nord, più ricchi d’acqua, potevano offrire selvaggina pregiata per le battute di caccia grossa. Elefanti, leoni, leopardi, bufali, e un ampio campionario di impala, kudu, gazzelle, orici, zebre; e persino qualche rarissimo rinoceronte. Le battute di caccia erano regolamentate e le prede avevano il loro tariffario. Si potevano abbattere maschi vecchi e femmine non più in grado di concepire sotto la guida di un ranger professionista. Le tariffe erano variabili. Da qualche centinaio di dollari per una gazzella, a un migliaio per un kudu o una zebra; quattromila per un bufalo, settemila per un leopardo e fino a trentamila per un leone maschio o un elefante; ma si poteva arrivare a settantamila per un rinoceronte. Era una passatempo costoso e la clientela era limitata. Coi suoi aridi duemila ettari popolati di un po’ di kudu e di struzzi, Joe non poteva certo competere con le verdi e popolose riserve di caccia del nord.

“Adesso cambierà tutto,” disse Joe. “Quando installerete il cantiere, cambierà tutto.”

Avevano raggiunto un accordo, su questo punto. Joe avrebbe ceduto alla Compagnia una trentina d’ettari di terreno. La Compagnia ci avrebbe costruito su i suoi campi e le sue installazioni e le sue officine e li avrebbe lasciati a Joe a lavoro finito.

Andarono a vedere i pozzi. Erano cinque, disseminati nella farm ad alcuni chilometri l’uno dall’altro. I soli punti in cui Joe fosse riuscito a trovare dell’acqua.

***

Il rientro a Windhoek fu rapido. Poco meno di tre ore per percorrere i quasi cinquecento chilomentri di strada diritta, ben asfaltata e pressoché deserta, che tagliava da sud a nord il Paese. Santo viaggiava attorno ai centottanta, con qualche punta sopra i duecento. Per lui era la velocità di crociera. Seduto al posto del passeggero, Angelo si sforzava di tenere i nervi sotto controllo. La strada era dritta come una fucilata e ben disboscata ai lati e completamente sgombra; e questo, si ripeteva Angelo, è sufficiente. Deve essere sufficiente. Il fatto che sia così piatta e senza curve e l’ampiezza della visuale. Non c’è nulla in vista contro cui schiantarsi, quindi c’è nulla da temere. Non faceva che ripeterselo. Non sapeva più come ripeterselo. Non doveva mostrare di aver paura davanti a Santo, che aveva una passione per i motori e per le auto sportive. Santo guidava solo una Porsche Panamera, ma gli aveva già confidato che, grazie ad Assartal, contava di sostituirla presto con una Ferrari. Si sarebbe pagato un corso da pilota-amatore a Maranello, sempre coi soldi di Assartal. E avrebbe fatto un figurone ai raduni di auto sportive del subcontinente australe. Santo non si perdeva un raduno di auto sportive nel raggio di mille chilometri da Windhoek. Una Ferrari ultimo modello avrebbe lasciato a bocca aperta tutti quanti… Mostrare paura per la velocità, con Santo, era un errore. L’avrebbe subito messo in condizioni d’inferiorità. Sarebbe immediatamente scattato quel meccanismo. E questo Angelo non poteva permetterselo, perché Santo era il suo socio in affari. Cominciava ad abituarsi a quel modo di guidare di Santo e a quel tipo di rapporto lui, mentre l’auto filava tra i centottanta e i duecento, e la strada era sgombra e dritta a perdita d’occhio e la pianura arida e desolata scorreva come su uno schermo, un innocuo schermo da film avvolto attorno ai finestrini; l’aria condizionata ronzava discreta sul sottofondo di musica country e quella fettuccia stretta d’asfalto nero scivolava via tagliando la pianura, filava su uno sfondo di rocce e deserti e non c’era ragione, ragione alcuna, di aver paura…

In direzione opposta, verso sud, la strada arrivava fino a Cape Town. Più o meno la stessa distanza. E due mondi diversi. Gli sarebbe piaciuto percorrerla fino a Cape Town. Ma era lì per lavoro ed era diretto a nord, a Windhoek; e Windhoek – la grigia e collinare Windhoek – era già in vista. Quell’agglomerato di strade in salita dai nomi tedeschi, che avevano finito col formare una città. Ampie zone di quella città conservavano un’impronta così tedesca. I tetti dagli spioventi inclinati. Eccessivamente inclinati. Come se in quel posto ci si potesse aspettare un’abbondante nevicata. Ridicolo solo pensarlo. E quei nomi così fuori luogo laggiù. Friedrichstrasse, Goethestrasse, Wilhelmstrasse, scritti a caratteri gotici sulle piccole targhe rettangolari all’inizio di ogni salita. Tutte le strade di Windhoek, gli parve, erano in forte salita o in forte discesa, e le batteva un vento teso e costante.

***

Lei lo accolse sul patio della villetta a due piani circondata da un ampio giardino. Alcune auto di grossa cilindrata erano parcheggiate sulla spianata di cemento che fronteggiava la casa e alcuni uomini bianchi e di colore erano accanto a lei nel patio.

“Angelo!” Disse lei, e scese i tre gradini. Era radiosa. Gli stampò un bacio sulla guancia. Gli prese il braccio e lo condusse di sopra.

Lei era Kathy Tomasi, la meticcia. Loro erano farmers amici suoi. Gente piena di quattrini.

Kathy indossava un vestito leggero di cotonina rosso scuro. Portava orecchini e bracciali dello stesso colore e aveva raccolto i capelli dietro la nuca. Quel colore le donava. Era stata una bella donna, ai suoi tempi. Ora aveva passato la quarantina, ma non era ingrassata eccessivamente, la corpulenza delle africane aveva risparmiato il suo corpo, che s’era mantenuto armonioso, forse un po’ troppo pieno, nell’abbondanza dei seni e dei fianchi, ma ancora energico e compatto, ancora vitale.

E comunque, per Angelo, almeno fino ad allora, non era il corpo la parte più interessante di Kathy Tomasi. E nemmeno il viso, che pure non era da buttar via, con quegli occhi di un verde smeraldo, quasi trasparente, che galleggiavano come fanali nella carnagione brunita da creola; le labbra piene, la fronte bombata e le gote ricche delle africane. Ma non era nemmeno il volto la parte più interessante di Kathy, bensì quel che c’era dietro, dentro la scatola. Era lei, in famiglia, quella che aveva cervello, e questo Angelo lo capì subito.

Anche quella sera la conversazione si svolse sotto la vigilanza di Kathy, condotta da lei. Non parlava molto, ma i suoi interventi imprimevano come un leggero scarto alla discussione, correggendola e cambiandone il tono e reindirizzandola. Era una conversazione d’affari. E le leggere correzioni di rotta che Kathy imprimeva al discorso riguardavano quasi sempre qualche affermazione che aveva appena fatto il marito. Kathy lo accompagnava, e lo guidava con discrezione, e lo riposizionava. Era il suo modo di sorvegliare per conto della famiglia i suoi goffi tentativi da uomo d’affari. Gli dava anche briglia, fino a un certo punto, lasciava correre le smargiassate da guappo di Santo, finché erano innocue; ma poi all’improvviso tirava il morso, quando le sue boutades rischiavano di portarlo su un terreno pericoloso, e imprimeva all’andatura di Santo una frenata, o uno scarto. E Santo ormai conosceva i comandi di quelle redini e rispondeva docile, come una bestia doma.

A parte questo, Santo e Kathy erano una coppia perfettamente affiatata, anche nel campo degli affari, e lei lo guidava e raddrizzava la rotta quando occorreva e cercava in questo modo di proteggere la fortuna di famiglia e quel che restava della loro reputazione; e la sua guida discreta e inflessibile Kathy Tomasi la esercitava anche sugli interventi dei suoi ricchi amici, tutta gente che voleva mettere denaro in Assartal e assicurarsi una fetta della torta.

La riunione si svolse nella sua cucina. Era l’ambiente più grande della casa. Un’enorme cucina vivibile con un’ampia veranda che dava sulla terrazza, aperta a sua volta sul panorama delle colline di Windhoek, che s’incatenavano dolcemente in lontananza. Una strana casa. Tutta piena di Kathy, tutta costruita attorno alla sua presenza e alla sua cucina. E le discussioni che vi si svolsero furono animate dal suo spirito e pilotate dal suo cervello.

Fu nella cucina di Kathy che s’impastò e poi s’infornò la torta di cui ciascuno voleva una fetta. E, nelle intenzioni di Kathy, ciò avvenne secondo la ricetta che lei aveva elaborato, dosando a suo criterio gli ingredienti che lei stessa aveva selezionato con cura. Era una donna intelligente, Kathy Tomasi. E affascinante e determinata. Ma forse aveva un po’ troppa fiducia nella sua intelligenza e nel suo fascino.

Attorno a un enorme tavolo di forma irregolare e ramificata, ricavato dal tronco massiccio di un grosso camel-thorn tree, aveva riunito i rappresentanti della mezza dozzina di famiglie che avevano in mano un bel pezzo dell’economia del Paese. Era la loro cordata, capeggiata da Santo – ma in realtà guidata da Kathy – che partiva alla conquista di Assartal. Avrebbero investito un mucchio di quattrini e comprato macchine e impianti e assunto personale e stipulato contratti di subappalto e ordini di fornitura, per associarsi alla Compagnia in quell’impresa.

Si parlò d’affari, nella cucina di Kathy, per quella sera e per molte sere successive. E si stipularono accordi e si divisero compiti e si fissarono quote. E alla fine, il meno soddisfatto di tutto questo mercato parve essere proprio Angelo, che pure firmò quegli accordi a nome della Compagnia. Perché non poteva fare altro, visto che quello era il loro Paese. Venne a patti con quella gente, con quella cordata di grandi famiglie namibiane, quell’orgogliosa e feroce dinastia di meticci e di ex-colonizzatori. Guidata dalla coppia Santo-Kathy. Entrambi soddisfattissimi e impazienti di cominciare. Loro due e tutti i loro soci.

***

Cominciò Assartal. Santo si mosse bene, all’inizio. Fu piuttosto bravo e persino utile alla Compagnia, nei primi passi di quell’affare. Santo Lagreca in Tomasi aveva ormai adottato in esclusiva il cognome della moglie. Perché Tomasi era un cognome pesante, in quel Paese, un cognome che apriva molte porte. E lui nei primi tempi fu abbastanza svelto e spregiudicato nell’usarlo e diede una bella mano alla Compagnia in tutti quei passi preliminari che chiunque voglia imbarcarsi in un’impresa come Assartal deve sbrigare. Fu abile a dipanare la matassa che s’aggroviglia attorno a ogni grande opera in tutti i paesi del mondo; ed ebbe, oltre al cognome, anche un certo fiuto e un buon tempismo da opportunista e un talento da commediante o da commerciale navigato, che è più o meno lo stesso, e alla fine l’appalto fu preso.

Sicché il giorno successivo si fece una gran festa in casa Tomasi. La sera dopo la firma del contratto Kathy diede una gran ricevimento nella sua cucina, con lei in veste di padrona – non solo di casa – e di primadonna spumeggiante, e con Santo e Angelo e tutti i farmers della cordata a farle da contorno. E scorsero fiumi di whisky e di champagne per una notte intera e Angelo si prese l’ultima e più colossale sbronza della sua vita adulta; e all’alba si risvegliò su un divano, mezzo abbracciato a Kathy Tomasi, discinta e semispogliata e sbronza; ed entrambi circondati dagli amici di Kathy, i magnifici soci namibiani, che russavano della grossa, tutti quanti Santo incluso. Un’alba debosciata di post-bagordi che avrebbe dovuto servire da avvertimento per tutti loro.

***

Fu dopo aver conquistato l’appalto, che Santo commise l’errore. E non fu colpa di Angelo, quel che accadde in seguito. Fu una conseguenza, nient’altro che una meccanica conseguenza. Angelo gliela fece pure, a quel punto, la sua proposta. La proposta scontata, quella che la Compagnia aveva in mente fin dal principio. E Santo avrebbe ancora potuto accettarla e uscirne indenne.

Ma invece di accontentarsi e starsene a molte miglia di distanza dal cantiere e gestirsi tranquillo la sua ricca quota – la sua e quella dei suoi soci namibiani – a quel punto Santo s’intestardì, e s’infuriò, e pretese il rispetto dei patti per sé e per la sua cordata. Volle partecipare davvero all’impresa. Pensò di fare sul serio il socio della Compagnia, l’imprenditore, e prendersi un pezzo della costruzione dell’opera; e non sapevano affatto, né lui né Kathy, con tutto il suo fascino e la sua intelligenza, in che guaio andavano a cacciarsi. L’intelligenza di Kathy Tomasi non fu loro d’aiuto, in quel caso. E, quanto a fascino, funzionò a rovescio: pensava di sedurre e invece fu sedotta, il suo fu soverchiato da quello della diga. Tutta presa dall’amministrare le sue attrattive, non si accorse di cedere a quelle di Assartal, anche lei fu conquistata dall’opera, dal desiderio dell’acqua e dalle sue promesse di soldi e di gloria.

***

Santo ci si mise d’impegno, all’inizio: comprò macchine, investì in impianti, stipulò contratti, mise la sua quota di garanzie; si comportò in tutto e per tutto come il socio d’affari della Compagnia. Ma quando i primi nodi nella costruzione dell’opera vennero al pettine, quando affiorarono i primi scogli, perse la bussola e cominciò ad annaspare. E per un po’ cercò di nasconderlo, e ci riuscì, e per qualche tempo nessuno dei suoi soci sospettò nulla.

Kathy era una donna intelligente, e forse intuì il pericolo. Ma anche lei era inesperta, e pure abbastanza ingenua da lasciarsi infatuare e difettò di lungimiranza e fu un po’ accecata dal miraggio di Assartal. Chissà perché così tante persone intelligenti come Kathy, e navigate e col pelo sullo stomaco come lei e i suoi amici ex-coloni, si lasciarono sedurre da quell’idea. L’idea di un grande progetto. L’opera maggiore mai costruita nel Paese. L’acqua per tutto il sud. E così tanta gente, tra le classi abbienti di Windhoek e dintorni, alla ricerca di una missione. Forse bisogna conoscere un po’ il Paese per capirlo, e il meticciato. Un paese così periferico. E un meticciato così profondo. E l’ansia di uno scopo che generavano queste due cose e che a un certo punto, misteriosamente, si coagulava attorno all’idea dell’opera. Così tanto affetta dall’idealismo provinciale di quella gente.

Kathy non impedì a Santo di buttarsi a capofitto nella costruzione della diga. E, saltata lei, non c’erano più ostacoli che potessero fermarlo. Non prima del disastro. Che Kathy avrebbe avuto il compito d’impedire, perché era lei la custode della gabbia. Deteneva lei le chiavi e avrebbe dovuto farne miglior uso, questo pensò la famiglia. E non glielo perdonò.

Lui ci si mise d’impegno, ed ebbe anche la sfortuna – e tutti loro ebbero la sfortuna – che le cose gli andarono discretamente, all’inizio. Questo li illuse, tutti quanti, di potercela fare. Così spesero una barca di quattrini in macchine e impianti e subappalti. Lui, la famiglia di Kathy e la loro cordata. Ci misero un bel pezzo della loro fortuna e pensarono che le cose potessero essere ben pianificate e controllate e dirette, come in qualunque altro ramo d’affari, come in una miniera di diamanti, ad esempio, o in un resort da caccia grossa. Perché nessuno di loro sapeva un accidente di dighe e di fiumi. E nessuno di loro aveva idea di quanto può essere traditrice quella roba. E poi Santo dava davvero l’impressione di saperci fare, ed era così in parte e pieno di fiducia in se stesso, e persino Kathy ci cascò. E convinse anche gli altri, tutti quelli che aveva attorno, perché a far questo Santo è bravo, sa raccontarla e sa sognare. E molti avevano una gran voglia di sognare, da quelle parti, e tutti loro abbassarono la guardia. E quando poi il colpo arriva, quando la diga fa semplicemente il suo lavoro e mena la sua mazzata, per novellini come Santo e i suoi è una botta tale che non si rialzano più.

Così Angelo, che l’aveva pure avvisato, a quel punto non poté far altro che aggiungere il suo colpo a quello della diga. E quando la cordata di Santo ebbe il fiato corto e fu piena di debiti e non poté più mettere le sue quote perché nessuna banca le andava più dietro, per un tozzo di pane rilevò tutte quelle macchine e quegli impianti in cui  Santo e i suoi avevano investito un mucchio di quattrini. E che loro non avevano la capacità di far fruttare, ma la Compagnia sì.

***

Angelo non era esattamente quel tipo di bastardo. Non aveva avuto intenzione di fottere Santo fin dall’inizio. Ci si trovò, ecco tutto. Accadde un po’ alla volta, giorno dopo giorno. Le circostanze lo trascinarono a questo.

Una volta firmato il contratto, aveva anche tentato un’ultima volta di avvertirlo. “Stanne fuori,” gli aveva detto. “Non è roba per te.” Ma quello non volle dar retta. S’era fissato, con quella diga. Voleva essere il più grande costruttore del Paese. Voleva dimostrare a Kathy e alla famiglia di Kathy e alle altre famiglie quel che valeva. Voleva che tutti sapessero che Santo Lagreca è uno in gamba, uno che ci sa fare; e quando c’è di mezzo lui si fanno le cose in grande. Più in grande di quanto loro, povera schiatta di ex-coloni, con tutti i loro quattrini avessero mai fatto.

Voleva essere un grande imprenditore, e il costruttore della grande diga che tutti i farmers assetati del paese aspettavano. C’era una gran sete, intorno alla diga di Assartal, la sete di tutt’un pezzo di Paese: autentica sete d’acqua, per coltivare e allevare; e poi una gran sete di quattrini. E in fondo, di tutte le seti che Assartal suscitò, quella di Santo – che era semplicemente sete di riscatto – fu la più ingenua e innocente. E anche l’unica che restò insoddisfatta.

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Quando infine la famiglia Tomasi e le altre famiglie di ex-coloni si resero conto che Santo e Kathy li portavano a sbattere, ci fu una piccola resa dei conti. E altre persone, al loro posto, firmarono quell’accordo di scioglimento, che la Compagnia aveva già offerto a Santo e Kathy, e che loro avevano rifiutato. E che ora – sia pure a condizioni un po’ meno generose, perché nel frattempo i rapporti di forza erano cambiati – i nuovi negoziatori s’affrettarono ad accettare.

E la cordata namibiana uscì definitivamente dalla costruzione di Assartal, e la costruzione fu portata a termine, tutto sommato abbastanza bene, e oggi ad Assartal c’è un lago, e c’è acqua, con vantaggio di tutti, non esclusi la Compagnia e anche, in fondo, i suoi ex-soci namibiani.

Gli unici a rimetterci qualcosa, in quell’impresa, furono Santo e Kathy. Un prezzo, per quel pasticcio, qualcuno doveva ben pagarlo. E’ per questo che adesso non vivono più a Windhoek, in quella bella casa affacciata sulle colline della città, e non s’occupano più degli affari della famiglia Tomasi. O meglio, si occupano di uno solo di quegli affari: un resort di caccia di dimensioni medio-piccole e di rendita modesta, ma sicura, giù nel sud. A quattrocento chilometri dalla capitale. E’ lì che li ha relegati la famiglia.

Certo, questo ha lasciato un modesto strascico di rancori. Non tanto in Santo, che pure non poté soddisfare la sua sete di riscatto e si ritrovò ingabbiato nel bush a fare una volta per tutte, e in via definitiva, l’ultima ruota del grande carro della famiglia Tomasi. Ma in lei.

L’intelligenza di Kathy Tomasi non poté digerire quella sconfitta. Era un’intelligenza orgogliosa, di un orgoglio vendicativo, femminile, e non poté tollerare di essere stata trascinata un quella disfatta, e battuta nella sua prova più importante, e svergognata davanti al resto della famiglia e confinata in quel resort di provincia in mezzo al bush, bandita dalle amicizie chic della capitale. Non senza farla pagare a qualcuno, almeno. A lui.

Sicché adesso tutte le volte che Angelo va a trovare Kathy in quel resort, lei è così carina con lui. Un po’ anche perché, semplicemente, non la va mai a trovare nessuno e ogni volta che Angelo si reca a passare un paio di giorni in quel luogo d’esilio, per lei è come se arrivasse una ventata di vita, e di fasti lontani, e un refolo d’aria del successo di Assartal e dei suoi quattrini, che la lambiscono lì al confino.

E ormai le cose sono talmente chiare che Angelo non si cura più nemmeno d’investigare se Santo sia o non sia nei paraggi: è lei che va a trovare. E quando questo succede, più o meno un mese sì e uno no, un long week-end di paga su due, quando il cantiere di Assartal chiude per tre giorni di fila, Santo parte per qualche battuta di caccia con i suoi rangers del resort e campeggia nel bush senza tornare a casa, la notte. Oppure procura di avere uno di quegli autoraduni di provincia per proprietari di macchine sportive, e va a farsi una bella corsa con la sua Porsche Panamera, che non cambierà mai più con una Ferrari.

Si leva di torno, insomma. E nella grande casa rustica del resort, col patio ombreggiato e la veranda e il vasto prato punteggiato di acacie steso davanti fino alla recinzione e al cancello, oltre il quale comincia poi l’immensa game reserve, in quell’isola deserta restano tutti soli, Angelo e Kathy. Lei si consola così. Piangendo, probabilmente, e maledicendosi, mentre si concede proprio all’uomo che l’ha rovinata e si tira un po’ su con lui.

Per un paio di giorni. Dopodiché lui se ne andrà, e lei si siederà su una chaise-longue in quella veranda ombreggiata, e si preparerà una tisana calda, e aspetterà il ritorno del marito. Ma aspetterà con ansia anche il ritorno di Angelo, il mese prossimo o quello di poi. E li odierà, nel frattempo. L’uno e l’altro.

Quanto a Santo, ha finito davvero per fare l’ultima ruota, la ruota di scorta, non solo nel grande carro della famiglia Tomasi, ma anche in quello più piccolo e miserabile del suo matrimonio.

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