Luca Fortis
Il racconto di un luogo simbolico

Storia di una Torre

A Positano, la Torre di Fornillo - storica residenza dei primi del Novecento dell'architetto svizzero Gilbert Clavel - è un simulacro di collezionismo, avanguardia e arte del secolo scorso. Ce lo rievoca il suo fedele custode: Daniele Esposito

La torre di Fornillo è uno dei luoghi più magici di Positano. Nel 1909 fu comprata e restaurata da Gilbert Clavel, architetto e raffinatissimo intellettuale svizzero. Fu negli anni Venti un cenacolo di letterati, pittori e musicisti, come Depero, Picasso, Cocteau, Marinetti, Prampolini e Norman Douglas. La torre, dopo la morte di Clavel, passò al fratello e in seguito fu venduta alla Principessa Santa Borghese Hercolani. Per comprendere meglio la storia di questo splendido luogo abbiamo parlato con Daniele Esposito, studioso di Clavel e storico custode della Torre.

Perché Clavel comprò la torre?

Credo che venne attratto principalmente dalla forma della pianta pentagonale dell’antica torre in rovina che gli ricordava la misticità di quella delle piramidi e decise quindi di restaurarla. Clavel scriveva: «Il quadrato tende al cerchio, il cubo svanisce nella sfera, il Delta cresce nella piramide». Era stato influenzato molto dai suoi viaggi in Egitto e in un certo senso, pensava che la torre lo avrebbe reso immortale, da un punto di vista materiale, storico e metafisico. Doveva essere uno strumento che potesse portarlo in un’altra dimensione. Nel leggere il suo libro, Un Istituto per Suicidi ci sono molti riferimenti al complesso architettonico che ha creato. Per esempio nel libro cita la torre “piramidale” a pianta pentagonale. Edificio che Clavel ha poi esteso, fino alla spiaggia di Fornillo, entrando e uscendo dalla pancia della montagna. Nell’opera si trovano molte allusioni ai cunicoli, alle forme delle stanze, alle scale, perfino ai vari stati d’animo che la torre crea. Purtroppo non riuscì a completare tutti i lavori che voleva fare. Manca la sala della musica che sarebbe dovuta diventare l’essenza dello spirito dell’edificio, il suo centro. Gilbert Clavel scriveva: «Quando non siamo né fuori né dentro. L’uomo smarrisce la via ed il centro. La morte è una permutazione del centro. /E la vita? / Un segno costretto entro il giro del tempo».

Come nacque il progetto della sala?

Anche se non era stata pianificata da subito, il progetto di questa sala nacque quasi per caso. Clavel ricavò la roccia per restaurare la torre dalla pancia dell’edificio stesso, la estrasse e la rimodellò. Scavando nello sperone in cui sorge la torre di avvistamento, scoprì una cavità naturale e scrisse al fratello che aveva un’ottima acustica. Decise quindi di creare nella grotta una sala di contemplazione del proprio Io, spinto sicuramente dalla sua passione per l’antroposofia. Lo fece per dare vita, “dare luce” a creature artistiche, in musica, lettera e immagine. In un certo senso sono creature anche mistiche in lui imprigionate, in pratica il suo “Goetheanum”. I continui crolli della grotta non lo permisero, cosi come la malattia.

Di cosa parla il suo libro “Un Istituto per Suicidi”?

Di un istituto in cui le persone possono suicidarsi scegliendo il sesso, l’alcol, l’oppio o un quarto metodo che racchiudeva tutte e tre le precedenti possibilità insieme. Racconta gli strani incontri che fa in questo luogo. Il libro è scritto in italiano. Se lo avesse scritto in tedesco avrebbe avuto probabilmente più successo. L’opera è stata ripubblicata nel 2006 insieme a una sua raccolta di novelle, Espressioni d’Egitto.

Quando Clavel arrivò in Campania?

Arrivò a Napoli perché, avendo un problema fisico, il medico gli consigliò di andare al mare e suo padre lo portò a Capri, dove poi comprò una piccola villa, la Saida. Clavel la battezzò così in memoria dell’antico nome Arabo della città di Sidone. Navigando tra l’isola e la costa scoprì vicino a Positano il rudere della torre a pianta pentagonale. Ne sentì da subito il richiamo e i lavori per rendere questo luogo “la sua torre” occuparono il resto della sua vita. Tanto che scrisse un giorno al fratello che la torre lo avrebbe ucciso. Ha messo tutto se stesso nell’edificio, la sua personalità, la sua idea di vita e di morte. La torre nasconde vari aspetti, come tanti ne aveva Clavel. Dietro le sue pietre si nascondono due estremi, la sua forza interiore e la sua voglia di creare, ma anche tutta la sua sofferenza e tristezza. La torre dà un grande senso di tranquillità mistica ad alcuni, mentre altri non riescono nemmeno a dormirci una notte. Secondo me perché ti rende nudo davanti a te stesso. Regala tanti stimoli diversi, è viva. Sembra quasi che si trasformi e trasformi chi vi trascorre del tempo. Clavel nel restaurarla si è ispirato all’antico Egitto, ma anche molto a teorie novecentesche come quelle dell’esoterista e teosofo austriaco, Rudolf Steiner e non solo. Da Steiner aveva preso l’idea dell’immortalità vista come una forma di energia che rimane dopo di noi. Chi visita la torre sente l’energia di Clavel. La sua ossessione di arrivare a costruire una struttura che non fosse solamente una casa, ma che potesse diventare un mezzo che gli facesse raggiungere un universo parallelo fatto di sola energia.

Da chi altro fu influenzato?

Clavel era archeologo ed era influenzato dalla storia dell’architettura. Nel 1922 partecipò al convegno sul paesaggio fatto a Capri dal sindaco e naturalista Edwin Cerio. Clavel amava l’architettura mediterranea ed era appassionato delle sue cupole, di cui studiò la storia, perché secondo lui erano legate alle origini delle abitazioni umane, cioè le grotte. Le legava anche al cerchio di Giotto o all’uovo, visto come oggetto mistico. Era poi influenzato dalla filosofia e psicologia, in particolare quella tedesca. La torre doveva essere anche un mezzo per condividere i suoi concetti e idee. Criticava molto gli artisti, come i futuristi, che si legavano al fascismo perché sosteneva che l’arte non potesse avere bandiere o padri. Amava dire che, a parte la questione spirituale, nell’aldilà non si può portare nulla, in particolare nulla di materiale. Un concetto che condivideva con molte persone della sua famiglia. Nonostante fossero tra le famiglie svizzere più ricche, l’ultima erede, la nipote Antoinette Fray Clavel quando è morta, viveva in una modestissima abitazione e gran parte dei loro beni oggi appartengono a una fondazione voluta dal fratello di Clavel, padre di Antoinette. Anche la torre ebbe un destino simile, Clavel la lasciò al fratello, certo che avrebbe portato avanti questa sua idea. Lo stesso fratello che poi nel 1954 la vendette alla Principessa Santa Borghese Hercolani certo che ne avrebbe conservato e valorizzato ogni sua aspetto “artistico, umano, magico e mistico”. Questo ha permesso che ancora oggi si possa visitare la struttura così come lui l’aveva pensata e creata.

Negli anni di Clavel molte personalità frequentarono la Torre e la villa di Capri.

Clavel era amico di Michele Semenov, segretario in Italia dell’impresario dei balletti russi Sergej Djaghilev, di Picasso, di Cocteau, degli artisti del Movimento Blu, dei futuristi Marinetti e Depero e di tanti altri intellettuali. Nei loro incontri, spesso grandi feste, si condividevano molto oppio e alcol. A Capri erano soliti scendere in una grotta tutti mascherati e i capresi che, non capivano i loro festini, li prendevano per riti satanici. L’oppio per loro era un collegamento con un’altra dimensione, non solo un modo per “sballarsi”, lo usavano anche per tirare fuori quella parte di loro non sempre facile da far emergere spontaneamente. Usavano le droghe anche per sollecitare la loro creatività artistica. Clavel amava la bellezza e soffriva molto per la sua malformazione fisica. Il sesso, l’alcol e le droghe, erano viste come qualcosa che andava provato perché bisognava anche trasgredire per poter comprendere i propri limiti e quelli degli altri, soprattutto le debolezze. Anche il Sud era di per sé una droga, perché oltre che bello, qui potevano fare cose che in Svizzera non era facile fare. Certo era un paradosso sentirsi più liberi nella Positano e Capri del tempo, che nelle già ricche e avanzate città italiane e svizzere degli anni Venti.

Clavel e Depero ebbero un rapporto molto stretto…

Clavel conobbe Depero a Roma, glielo fece conoscere Semenov che non era ricco e si avvaleva molto delle sue capacità di stare in società. Depero stava a Roma, perché aveva bisogno di vendere le sue opere e Semenov che forse era a caccia di una percentuale sulle vendite, gli presentò Clavel. L’archeologo svizzero si innamorò delle opere di Depero e ne acquistò tre perché gli ricordavano il suo mondo interiore. Lo invitò a Capri e lì nacque l’idea di fare I Balletti Plastici. Al tempo vi era il famoso balletto russo, con costumi particolari creati da Picasso e musiche di Stravinsky. Clavel e Depero hanno invece l’idea di trasformare i ballerini in automi e nel 1918 va in scena lo spettacolo al Teatro dei Piccoli a Roma. Ebbe un grandissimo successo e da qui Depero si inserì nella buona società romana e nel gruppo dei futuristi.  Depero dopo essere stato aiutato da Clavel si allontanò però da lui. Le ultime lettere tra i due divennero fredde, dopo che per anni Clavel era stato anche il soggetto di molte sue opere. Negli anni in cui erano ancora amici Clavel ne acquistò alcune e altre nel tempo gli furono donate da Depero. Molte di esse rimasero nella torre, che poi fu acquistata dalla Principessa Santa Borghese Hercolani.  Al momento della firma presso l’hotel Sirenuse, il fratello di Clavel disse alla Principessa che avrebbe dovuto essere lei la custode di tutti gli oggetti personali di Clavel rimasti nella torre. Questo perché secondo lui non avrebbe avuto alcun senso portarli in Svizzera lontano dalla Torre. Così anche le opere di Depero vi rimasero.

Le opere di Depero sono ancora nella torre?

Un giorno sistemando dei documenti di Clavel che si stavano usurando per l’umidità, trovai una cartella con tutti i disegni di Depero. Io non sapevo nemmeno chi fosse, ma la Principessa, che era stata allieva di Balla, lo conosceva bene. Ero rimasto molto affascinato da queste opere, la principessa decise quindi di regalarmele. Fu lei a spiegarmi chi era Depero e da quel giorno andai a vedere tutte le sue mostre. Scoprii anche che dovevo fare molta attenzione perché vi erano molte persone interessate ai disegni. Io che mi sentivo particolarmente responsabile, alla fine li ho affidati in prestito, al Mart di Rovereto a titolo di un fondo nominato “Collezione Esposito”. Il Mart è curatore anche del Museo “Casa Depero”. Per molto tempo avevo scritto alla responsabile del museo, che però evidentemente non prendeva sul serio lettere che provenivano da uno “sconosciuto” Daniele Espostito da Positano. Finché la Contessa Claudia, nuora della Principessa S.B.H. che conosceva il direttore di un museo in Trentino e che certamente aveva contatti con la Casa d’arte Depero di Rovereto, riuscì a farmi contattare dall’allora direttrice del museo, la dott.ssa Gabriella Belli. La dottoressa mi disse che poteva essere la più grande scoperta su Depero dopo la sua morte e che dovevo recarmi immediatamente a Rovereto. Così diedi in prestito le opere al Mart, in cambio del restauro e della loro perfetta conservazione e chiedendo che fossero tutte esposte nel museo e prestate anche ad altri musei nel tempo. Per esempio sono state esposte al Guggenheim di New York. Questo per rispettare l’idea di Clavel che l’arte andasse sempre condivisa e della Principessa che me le ha donate.

Che rapporto hai con la Torre?

Il mio rapporto con la torre è legato in modo imprescindibile a quello con la Principessa Hercolani. La torre di Fornillo per noi Positanesi è come il Colosseo per i Romani, in un certo senso la sentiamo anche un po’ nostra. Quindi aver avuto l’opportunità di venirci a lavorare è stato per me un grande privilegio. La mattina portavo la colazione alla Principessa facevamo il punto sulle cose da fare, eventuali arrivi o partenze, su chi sarebbe venuto a pranzo, su come dovevo disporre i posti, servire a tavola. Anche se si osservava molto il galateo, non dovevo mai perdere la mia naturalità di positanese, quindi servivo scalzo con i miei pantaloncini ricavati da un jeans lungo e una magliettina. Un giorno andammo a Sorrento a comprare un motore marino e una canoa. Io ero arrivato la mattina alla torre con i classici jeans tagliati, maglietta bianca e scalzo. La Principessa mi disse che dovevamo andare a Sorrento perché il nuovo motore per la barca e la canoa li dovevo scegliere io, rimasi un po’ perplesso. Quando arrivammo, dal taxi scese da una parte lei tutta elegante e dall’altra io in quel modo. La principessa era sempre elegante e naturale e ti faceva sentire sempre a tuo agio al suo fianco, come diceva Totò “signori si nasce”.

Quando la stagione finiva, era il momento in cui riuscivamo a parlare di più perché la casa si vuotava. Lei aveva la grandissima capacità di separare il rapporto di lavoro da quello più confidenziale. Mi ha insegnato che anche se si è amici, il lavoro, nell’interesse reciproco, deve essere sempre fatto a regola d’arte. A fine estate mandava via tutti, compreso la sua governante Edera che veniva da Roma, poi sostituita da Angela.  A volte restavano per qualche giorno solo i figli e qualche amico a pranzo. Era il periodo più bello per me, spesso restavamo a chiacchierare fino alle tre o quattro di mattina. Io le facevo tantissime domande e lei amava rispondere. In quel momento della notte non era più lavoro, ma semplice amicizia. Furono lei e il conte Arduino a contribuire, non poco, nel migliorare il mio italiano, correggendomi quando sbagliavo. Gli amici mi prendevano in giro perché spesso anche con loro non parlavo più in dialetto, ma in italiano. La Principessa, a novantanove anni, per il mio matrimonio, volle dipingere personalmente un quadro che raffigurava la torre per poi farcene dono. Sapeva della mia passione per la torre e me ne ha nominato custode storico affidandomene la responsabilità di fare le sue veci quando studiosi, come il professore Harald Szeemann nel 1990, le chiedevano di poter visitare la Torre per dei loro studi o pubblicazioni. Senza la Principessa non avrei avuto un rapporto così particolare con questo luogo magico. È un posto speciale anche per le persone che venivano a trovare Clavel e in seguito la Principessa. Tutti ospiti molto interessanti che sono stati annotati, uno a uno, nel libro degli ospiti dagli anni venti in poi. Lo splendido rapporto che avevo con lei è proseguito con i suoi figli. Il mio legame con questo luogo è da sempre stato molto profondo, anche se a oggi non mi è ancora del tutto chiaro il suo vero motivo.

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