A proposito di "Sura dell'ora che cade"

Il dramma di Ana

Elisa Bondavalli ha ricostruito per la scena la storia di Ana Mladic, figlia del "boia dei Balcani" che sulla propria pelle prende coscienza del male che le vive accanto. Ecco le ragioni delle sue scelte

A ridosso della sentenza in appello del Tpi, che ha commutato in ergastolo la condanna in primo grado a 40 anni di carcere per Radovan Karadžić, l’ex presidente della repubblica Srpska e responsabile, insieme al suo generale in capo, Ratko Mladić, del genocidio di Srebrenica, dell’assedio di Sarajevo e delle maggiori atrocità della guerra in Bosnia, proponiamo ai nostri lettori l’intervista a Elisa Bondavalli, che ci parla del suo libro, Sura dell’ora che cade, appena pubblicato dal Convivio Editore. Un testo teatrale ambientato proprio negli anni cruciali del conflitto bosniaco.

Per iniziare, ci puoi dire brevemente di cosa parla il tuo libro?

La vicenda comincia nel 1993, quando da nove mesi il generalissimo della Repubblica Srpska, Ratko Mladic, è impegnato nell’assedio di Srebrenica e delle città limitrofe. Sua figlia Ana, una brillante studentessa di medicina, è fidanzata con Dragan Stojkovi, un giovane che sta assolvendo il servizio di leva e ha una visione opposta a quella di lei, che condivide l’ideologia nazionalista del padre. Lui, invece, ha posizioni pacifiste ed è decisamente scettico sulle ragioni del conflitto. Ad un certo punto il ragazzo viene chiamato alle armi e poi muore misteriosamente sul campo di battaglia. La sua morte, come ci si può immaginare, getta Ana nella disperazione.

È da questo momento, quindi, che inizia il cambiamento di Ana?

Sì, anche se in realtà la svolta vera e propria avviene dopo un viaggio a Mosca, dove la ragazza apprende dai giornali stranieri che il padre è chiamato il “boia dei Balcani”. Questo la porterà ad un esame di coscienza doloroso quanto drammatico a cui il genitore, però, resterà sempre estraneo. Di lì a breve, infatti, compirà l’efferato genocidio di Srebrenica.

Quali sono state le ragioni che ti hanno spinto a scrivere questa storia?

Proprio la figura di Ana Mladić, di cui una prima importante sollecitazione mi era venuta dal romanzo di Clara Usón, La figlia, è il motore originario di questa vicenda. La sua volontà di negare l’ascendenza paterna con un gesto tanto radicale come il suicidio, è, a mio avviso, uno degli esempi più limpidi e coraggiosi che si possano riscontrare nella nostra storia recente.

Quali sono, secondo te, le motivazioni profonde che hanno portato Ana a un passo tanto drammatico?

Nella mia interpretazione, una decisione così ineluttabile nasce dal fatto che Ana si sente colpevole di non aver capito, di non aver voluto vedere cosa le stava capitando intorno, cosa faceva e chi era in realtà suo padre. A ciò si aggiunge poi la consapevolezza che mai, neanche per tutto il resto della sua vita, avrebbe potuto rimediare alle infamie paterne. D’altra parte, penso anche che non dovesse essere facile per una ragazza di 23 anni, assumere una posizione critica verso la politica nazionalista di Milošević, nel clima di martellante propaganda, di controllo e manipolazione delle informazioni che lui aveva istituito in Serbia.

Nel tuo testo, però, grande rilevanza ha anche il contesto di Srebrenica…

Sì, è così. Sebbene resti sullo sfondo, Srebrenica è l’altra grande protagonista della mia storia. Mi premeva infatti raccontare, insieme al dramma personale della serba Ana, quello collettivo degli oltre ottomila civili bosniaci musulmani, la loro agonia di rifugiati nella città dove avevano cercato la protezione delle Nazioni Unite e furono invece consegnati nelle mani del loro carnefice.

Quali difficoltà hai incontrato nel rappresentare questi avvenimenti storici e i loro protagonisti reali?

Per scrivere in maniera credibile e rigorosa questa vicenda, dovevo calarmi a fondo nel contesto storico-culturale, conoscere l’ambiente, le ideologie, ma anche gli spostamenti dei personaggi nel tempo e nello spazio. Mi sono, quindi, documentata molto e ho consultato documenti di vario tipo: non solo testi storici, ma anche cronache, romanzi, diari, memoriali. Colgo l’occasione, quindi, per dire che uno dei libri che mi ha impressionato di più, e mi ha spinto a concentrarmi proprio su Srebrenica, è stato quello di Emir Suljagić, Cartolina dalla fossa. Una cronaca precisa e toccante di cosa significasse sopravvivere in quell’inferno di assediati, cosa fosse lo sforzo quotidiano per restare in vita. È sicuramente un libro fondamentale il suo, che non a caso è stato accostato a quello di Primo Levi, per la straordinaria volontà di capire, di spiegare con l’arma dell’intelletto, l’atrocità insensata eretta a sistema organizzato. Purtroppo, ancora una volta la ragione si è trovata costretta a dichiarare la sua impotenza e il lutto non ha potuto essere rielaborato.

È stato difficile immedesimarti nei personaggi?

Se ho trovato agevole l’immedesimazione con Ana, certamente molto più complesso è stato il discorso del padre. Per calarmi il più possibile nella sua ideologia deviata, dunque, per comprendere il suo personalissimo codice d’onore, la missione di cui si sentiva investito, ho dovuto attingere in modo massiccio anche a fonti smaccatamente filoserbe. Mi interessava soprattutto mostrare il punto di non ritorno di quest’uomo, questo Kurtz dei Balcani -come l’ho definito- trovatosi all’improvviso innalzato al sommo vertice militare con potere di vita e di morte, ricalcare il suo delirio d’onnipotenza, la follia omicida che fino all’ultimo resta esente da qualsiasi forma di pentimento.

Hai trovato differenza, quindi, tra lo scrivere dialoghi di personaggi immaginari e quelli invece di personaggi reali?

Sicuramente dare la parola a figure della realtà o della storia è molto più impegnativo, molto più vincolante, rispetto a quelle di finzione. In questo caso, fondamentale è stato il libro quasi introvabile di Milo Yelesiyević, Ratko Mladić. Tragic Hero, che ripropone, con evidente intento agiografico, quasi tutte le interviste rilasciate dal generale. Mi ha aiutato ad assimilare il suo stile, il suo modo di parlare, le espressioni e quindi il suo pensiero. Alcune battute, poi, sono proprio citazioni tratte dalle sue dichiarazioni. Nel complesso, comunque, mi auguro di essere riuscita a rendere i dialoghi di tutti i miei personaggi verosimili oltreché credibili. In questo modo spero di avere contribuito a rendere fruibile un evento così complesso come la guerra dei Balcani, anche attraverso la voce di chi è stato protagonista dell’ultima assurda tragedia del ventesimo secolo.

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