Roberto Verrastro
A proposito de " L'ora dello sciacallo"

L’Africa in giallo

L'apartheid, in Sudafrica, la Namibia: il narratore tedesco Bernhard Jaumann mescola realtà a finzione per raccontare un pezzo di storia africana (tra diritti e razzismo) ancora piena di ombre e misteri

«Anton Lubowski, 3 febbraio 1952-12 settembre 1989. Siamo orgogliosi di te. I tuoi genitori, fratelli e figli». Una vita spezzata a 37 anni, un delitto politico tra i più oscuri nella storia dell’Africa contemporanea, di cui nel 2019 ricorre il trentesimo anniversario e che simbolicamente concluse in Namibia un secolo di razzismo. Tra il 1904 e il 1908, quando il Paese si chiamava Africa Tedesca del Sud-Ovest, un ordine di sterminio emanato dal generale Lothar von Trotha, in accordo con il Kaiser Guglielmo II, decimò le locali popolazioni Herero e Nama ostili al dominio coloniale. Circa 80mila vittime di quanto la Germania ha definito genocidio solo nel 2015, finendo coinvolta dall’estate del 2018 in una controversia giuridica internazionale, per le riparazioni economiche richieste dai discendenti di due delle numerose etnie che subirono inoltre il regime segregazionista dell’apartheid introdotto dal confinante Sudafrica. Quest’ultimo, dopo la prima guerra mondiale, era subentrato alla Germania nel controllo della Namibia, diventata finalmente indipendente il 21 marzo del 1990, sei mesi dopo l’omicidio Lubowski (a destra nella foto accanto al titolo).

Nel romanzo L’ora dello sciacallo, del giallista Bernhard Jaumann (Rowohlt, 318 pag., libro ed ebook 9,99 euro), che nel 2011 si aggiudicò il Deutscher Krimipreis quale migliore thriller tedesco dell’anno inaugurando una trilogia che si svolge in Namibia, terminata nel 2015 e inedita in Italia (come la trilogia precedente ambientata dall’autore proprio nel nostro Paese), giunge il momento della vendetta per la morte dell’avvocato di origine tedesca Anton Lubowski. Nel 1984 fu il primo bianco a entrare nella Swapo, acronimo della South West Africa People’s Organisation, il partito che dal 1966 conduceva la lotta armata contro i sudafricani e che dal 1990 a oggi governa la Namibia, dopo averle anche fornito il primo presidente, Sam Nujoma.

La narrazione prende il via sotto il sole rovente di una domenica di inizio gennaio, che in Namibia è un mese estivo. È il 2009, è trascorso ormai un ventennio dall’omicidio Lubowski, e a Windhoek, la capitale, un killer a bordo di una Toyota Corolla raggiunge il quartiere di Ludwigsdorf. Al tramonto, in barba ai sistemi di sorveglianza, l’uomo si innalza al di sopra del muro di recinzione dell’elegante residenza di Abraham van Zyl, un bianco nato a Pretoria, che viene falciato da una raffica di kalashnikov, la stessa arma che uccise Lubowski: trenta proiettili calibro 7,62 che lasciano van Zyl a terra sotto gli alberi di limone del suo giardino. A indagare sul caso è la 31enne ispettrice Clemencia Garises, che vive a Katutura, il quartiere in cui nel 1959 fu ghettizzata la popolazione nera di Windhoek. Il lunedì mattina, all’aeroporto Hosea Kutako, atterra Leon André Maree, detto «Chappies», dal nome di una gomma da masticare popolare in Sudafrica, dalla quale era inseparabile. Il suo cadavere viene trovato carbonizzato nella stessa Toyota Corolla, ucciso anch’egli da cinque colpi di kalashnikov.

La vedova di van Zyl conferma che i due erano agenti del CCB, il Civil Cooperation Bureau, la sezione dei servizi segreti sudafricani che dal 1986 al 1990 eliminò i più temibili attivisti anti apartheid. «Niente storie, basta con le menzogne. Conta solo la verità, e la verità è la morte. Forse anche la vita, ma la morte ancora di più. Perché nessuno può dire che la vita sia sua, la morte invece sì, bussando a tutti. Presto o tardi.», scrive Jaumann nel filosofico incipit del romanzo. Clemencia fa visita all’ex magistrato Hendrik Fourie, un bianco che si occupò del caso Lubowski senza riuscire a incastrare van Zyl e Maree, da lui ritenuti responsabili dell’omicidio: non ne ottenne l’estradizione, necessaria essendo la Namibia diventata indipendente pochi mesi dopo il delitto. Fourie vive con una domestica e i due figli della donna, ma del padre dei piccoli non vi è traccia. Del commando di van Zyl e Maree, rivela Fourie, facevano parte il mercenario irlandese Donald Acheson, Staal Burger, Ferdi Barnard e un altro uomo di cui egli ricorda solo il soprannome: Donkerkop, «testa nera».

Fourie parte per il Sudafrica, dove nei giorni seguenti Staal Burger, «uomo d’acciaio», nome di copertura di Daniel du Toit Burger, riceve almeno dieci colpi di kalashnikov, mentre Ferdi Barnard viene trovato impiccato nel carcere di Pretoria in cui dal 1998 scontava l’ergastolo per l’omicidio dell’attivista anti apartheid David Webster. La morte di Barnard, archiviata come suicidio, è avvenuta dopo un suo incontro con Fourie. Un flashback ricostruisce gli eventi della sera del 12 settembre 1989 a Windhoek: Donkerkop, un 22enne con la passione per le auto, guidava una Toyota Conquest con cui arrivò davanti alla casa di Anton Lubowski. Di fianco a lui Acheson con il kalashnikov. Sui sedili posteriori Ferdi Barnard e Chappies Maree che, dopo avere sputato dal finestrino la gomma da masticare, allungò una pistola a Donkerkop, a cui Barnard suggerì:«Attento a non spararti nelle palle, se per caso le hai, poppante…». Staal Burger e van Zyl li avvertirono via radio dell’arrivo di Lubowski e, dopo la raffica di Acheson, Donkerkop scese dall’auto per sparare il colpo di grazia.

Nel 2009, manca ora all’appello Donald Acheson, che vive nel Kalahari tra le città namibiane di Gobabis e Leonardville e rivela a Clemencia Garises che Donkerkop è Martinus Cloete, un bianco di Windhoek. Acheson, a dispetto della protezione predisposta intorno a lui, viene assassinato a colpi di pistola e kalashnikov come Lubowski, uno Schindler che pagò con la vita il riscatto della coscienza nazionale tedesca. Al Katutura State Hospital, l’ispettrice Garises scopre che un malato di Aids, Lucas Elago, un nero nato il 23 gennaio 1967, è sparito dall’ospedale il 20 o il 21 dicembre, circa due settimane prima dell’omicidio van Zyl, e risulta risiedere allo stesso indirizzo di Hendrik Fourie, la cui domestica e i suoi due figli sono la famiglia di Elago: Fourie ha promesso di prendersene cura. Prima di morire, Elago confessa gli omicidi di van Zyl, Chappies Maree, Staal Burger e Donald Acheson, e scagiona Fourie quale mandante, dicendo di essere stato fin da ragazzo un combattente per la libertà. Donkerkop è l’unico sopravvissuto del commando che assassinò Lubowski, perché nel diabolico piano di Fourie doveva essere scambiato per il complice arruolato a suon di minacce dal defunto Elago. Fourie tuttavia si costituisce dopo un incontro con Clemencia Garises che, dopo avere ridestato la sua coscienza di uomo di legge, si reca nel cimitero di Katutura a rendere omaggio alla tomba di Anton Lubowski.

L’ultima rivelazione è nella notwendiges Nachwort, la postfazione necessaria in cui Jaumann chiarisce che Donald Acheson, Chappies Maree, Abraham van Zyl, Staal Burger e Ferdi Barnard sono i nomi veri degli agenti del CCB coinvolti nel caso Lubowski, tranne Acheson tutti sicuramente viventi all’uscita del romanzo. Eventuali querele avrebbero forse aperto la strada a un processo in grado di accertare finalmente la verità. Non è accaduto.

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