Raoul Precht
Periscopio (globale)

L’altro Zweig

Il ripudio dell’identità prussiana, Freud, la tradizione ebraica e l’approdo socialista: è tutta da rileggere la parabola di Arnold Zweig, un uomo del Novecento. Lo scrittore che vide in Hitler l'orrenda caricatura di Charlot

Secondo Ladislao Mittner – la cui storia della letteratura tedesca resta, malgrado il passare degli anni, uno strumento indispensabile – Arnold Zweig è stato il migliore scrittore tedesco espresso dal socialismo. Di sicuro, dopo essere riparato nel 1948 nella zona occupata dai sovietici, che l’anno successivo prenderà il nome di Repubblica Democratica Tedesca, Zweig vi diverrà una delle personalità più note e influenti, occupando posti d’importanza anche burocratica, come quello di presidente dell’Accademia tedesca delle arti. Eppure, al socialismo era arrivato relativamente tardi, e va sottolineato anzitutto, a scanso di equivoci, che la sua narrativa, benché realista e se si vuole, appunto, socialista, non rientrerà mai nei canoni del deprecato “realismo socialista”, con la sua farisaica contrapposizione fra bene e male, bravi personaggi proletari e infami capitalisti.

Scrittore socialista, dunque, ma anche profondamente borghese – venuto al mondo nel 1887 a Glogau, in Slesia, in una famiglia d’artigiani di discreta posizione sociale: il padre era mastro sellaio –, in termini di classe sociale Zweig non si discosta dalla stragrande maggioranza degli scrittori tedeschi del Novecento. Così come non si discosta, in gioventù, da un frettoloso e poco meditato entusiasmo per l’entrata in guerra, che ben presto si tramuterà in un trauma, nel trauma fondante, anzi, di gran parte della sua opera.

Già insegnante e scrittore di un certo successo – le Novellen um Claudia sono del 1912, il dramma Ritualmord in Ungarn è del 1914 –, nel 1915 Zweig è infatti arruolato come soldato semplice e spedito al fronte, in Serbia, in Ungheria, in Belgio, a Lilla e a Verdun, e in un primo tempo tende ancora a identificarsi con il Reich, facendo confusione fra lo Stato reale e gli ideali che questo stesso avrebbe dovuto personificare; alieno da proteste, combatte disciplinatamente fino al 1917, quando, promosso nell’ufficio stampa dell’esercito, si ritrova a studiare da vicino personaggi come Ludendorff e Hindenburg, e da tale inevitabile frequentazione trae ben presto le proprie altrettanto inevitabili conclusioni. La più importante delle quali è la constatazione di un fallimento personale: se fino a quel momento aveva ancora creduto di poter conciliare, nella sua vita e nei suoi scritti, le due colonne portanti della sua personalità e della sua cultura, ovvero l’ebraismo e il prussianesimo, ora deve riconoscere che per questa sintesi, nel mondo del primo dopoguerra, non c’è più posto.

A farne le spese sarà soprattutto l’identità prussiana, che nei primi anni aveva in qualche modo prevalso anche su quella ebraica: come nota in un famoso saggio Marcel Reich-Ranicki, a differenza di altri scrittori suoi correligionari Zweig non è nervoso e pieno di temperamento, ma equilibrato e controllato, non aggressivo ma pacificante, non sarcastico ma allegro, non rivoluzionario ma conservatore e non è un artista dell’esperimento, ma della tradizione. Si aggiunga a questo che nel 1923 sarà il curatore delle opere complete di Kleist – per lui il modello prussiano per eccellenza – e che fra i suoi ascendenti letterari, più ancora del romanzo francese e russo dell’Ottocento di cui pure è assiduo lettore, conta moltissimo l’esempio di Theodor Fontane, e si avrà la quadratura del cerchio.

Se non lo spinge fino a un’aperta ricusazione dell’identità prussiana, la Grande guerra ne raffredda però notevolmente gli entusiasmi per l’ordine e la disciplina e lo spinge verso una riflessione più articolata, che negli anni ’20 lo avvicinerà alla psicoanalisi. In questo contesto va letta anche l’amicizia personale con Freud, di cui dal 1927 sarà non solo paziente, ma uno dei più assidui interlocutori. La corrispondenza con Freud si dipanerà lungo dodici anni e resta un’interessante e a tratti avvincente testimonianza della crisi degli intellettuali tedeschi fra le due guerre.

Pentito delle sue idee bellicistiche – in piena guerra si era oltre tutto trovato esposto all’aperto antisemitismo dei commilitoni –, Zweig non esiterà a modificare a posteriori testi scritti negli anni Dieci, rendendoli più consoni al nuovo credo pacifista. Parallelamente, è molto attivo in campo politico, tanto da firmare nel 1930, insieme con un’altra quarantina di scrittori e intellettuali tedeschi, da H. Mann a Einstein, un appello contro l’imprigionamento e la successiva esecuzione in Unione Sovietica di quarantotto tecnici accusati di sabotaggio.

Quanto all’ebraismo, con il passare degli anni la sua religiosità, inizialmente non troppo problematica, si tinge sempre più di sionismo, anche per via degli insegnamenti di Martin Buber, che comincia a seguire già dal 1912. L’esperienza personale in Palestina, dove si rifugia nel 1933 dopo aver assistito in patria al rogo dei suoi libri, sarà tuttavia foriera di disillusioni e lo indurrà a distanziarsi sempre di più dall’aggressiva politica israeliana, fino al momento di allontanarsi, dopo aver espresso vivaci critiche contro le misure ostili alla popolazione araba, da un paese che aveva amato al punto di stabilirvisi per quindici anni, fino al 1948, ma in cui non si era mai sentito davvero a proprio agio.

Nel secondo dopoguerra s’inserisce dunque nel flusso degli scrittori e intellettuali tedeschi che rientrano in patria e sceglie la zona orientale di Berlino, controllata dall’Unione Sovietica: si ritroverà così insieme a Johannes R. Becher, Anna Seghers e Bertolt Brecht. Quest’ultimo sarà nei primi tempi suo vicino di stanza in quel che rimaneva dell’Hotel Adlon bombardato. In Germania Est Zweig rimarrà poi fino alla morte, avvenuta cinquant’anni fa, il 26 novembre 1968, dopo una malattia che lo aveva praticamente reso inattivo negli ultimi cinque anni di vita.

Dicevamo che è la Grande guerra il tema dei suoi romanzi principali, i quali non sono tuttavia romanzi di guerra in senso stretto: il conflitto costituisce semmai la cornice entro la quale i personaggi e le loro vicende evolvono. Nella “guerra degli uomini bianchi”, come Zweig stesso la definisce, il romanziere cerca anzitutto, e vanamente, di trovare un senso alla carneficina, ma finisce per ravvisare la crisi dell’umanesimo, su cui prevale una sbrigativa alleanza, quella fra militarismo e industria: ecco dunque che nella Questione del sergente Grischa (1927), il suo maggiore successo (300.000 copie vendute in pochi mesi), al personaggio del maggiore von Lychow, che ha ancora qualche scrupolo e tenta di far prevalere la giustizia, si contrappone quello del generale Schieffenzahn (letteralmente: “dente storto”), ricalcato sulla figura storica di Ludendorff, che invece impone brutalmente la legge del più forte. Il povero Grischa, un sergente russo fuggito dalla prigionia tedesca e riacciuffato dal nemico, viene fatto passare per una pericolosa spia e fucilato, benché la sua innocenza sia conclamata ed evidente a tutti.

Nei romanzi successivi, Giovane donna del 1914 e Davanti a Verdun, legati al precedente anche dalla presenza di alcuni personaggi comuni, Zweig sviluppa ulteriormente la propria tecnica, che consiste nell’attenta embricazione di storie e micro-guerre personali, apparentemente di scarsa entità, fino a formare un mosaico che renda lampante l’inesorabile dispiegarsi della dinamica bellica. In particolare per mezzo del suo alter ego Werner Bertin, che ha la sua stessa origine e ne condivide le esperienze esistenziali, Zweig rende testimonianza di un periodo di grandi rivolgimenti, dipingendone un autentico affresco.

Contemporaneamente illustra le proprie idee politiche con alcuni saggi, fra i quali va segnalato almeno Caliban oder Politik und Leidenschaft, un vibrante intervento contro il totalitarismo e l’antisemitismo.

Nell’ultimo grande sforzo narrativo, La scure di Wandsbek, del 1948, in cui mette in scena la popolazione di Amburgo nei primi anni del nazismo, Zweig racconta la storia della condanna a morte di quattro comunisti per fatti di sangue attribuibili invece al montante movimento nazionalsocialista, durante la marcia delle SA del 17 luglio del 1932, la famigerata “domenica di sangue di Altona”.

La ricerca della verità storica resta quindi centrale in tutta la sua opera, votata a combattere ogni mistificazione e a mortificare i pagliacci che di tanto in tanto della storia diventano misteriosamente protagonisti. Quando, nel 1929, gli capitò di assistere a un comizio di Hitler, disse poi alla moglie che gli era sembrato di vedere in azione un attore, una specie di Charlie Chaplin, ma privo di talento. Attenzione alle date, però: il Grande dittatore sarebbe stato girato solo undici anni dopo…

Facebooktwitterlinkedin