Filippo La Porta
Un concerto della band di Elvio Ghigliordini

Encomio del mambo

Che cosa ha da dirci, oggi, il mambo? Che cosa possono comunicarci le musiche (e le arti) inattuali? Che la contemporaneità non è univoca e parla molte più lingue di quelle (poche) che esercitano egemonia culturale

Se una notte piovosa d’autunno un appassionato di jazz decide di andare a San Lorenzo, in un locale che si chiama Felt, a sentire una big band di 20 elementi devoti a Tito Puente (nella foto), il re del mambo – un genere “antico” e   quasi anacronistico –, potrebbe ricavarne  stimoli per qualche  divagazione sulla musica pop nel nostro presente.

Che c’entrano il mambo – sensuale, ingenuo, ingenuamente allegro – o il cha cha cha – che a noi evoca le scene più fatue delle commedie all’italiana anni ‘60 – con la nostra epoca? Con la vertigine del transumano e della ingegneria genetica, con la società liquida e le sue fantasie apocalittiche? Con l’ambiguità del virtuale? Con il primato dell’elettronica? Forse nulla, è una musica inattuale, proprio nella sua trasparenza. Ma quale musica oggi è davvero “attuale”? Il punto è che ormai nessun genere musicale esprime – da solo – l’epoca che stiamo vivendo. Guardiamo per un momento il passato recente. Parlando all’ingrosso: gli anni ’50 hanno espresso  il rock‘n’roll, gli anni ’60 il folk di Dylan, il progressive rock dei Rolling Stones, Hendrix, Jefferson Airplane, etc.  e il rythm & blues, gli anni ’70 il latin rock di Santana, il reggae e il punk, gli ’80 la disco, i ’90 la techno… Dopo è successo però che nessun genere musicale ha caratterizzato da solo  un decennio. Prevale, come in ogni campo e linguaggio, il miscuglio, l’ibridazione, la citazione, il riciclo più o meno creativo (lo stile  del   postmoderno). Non si dà più un genere condiviso da una intera generazione. Ognuno si crea il suo percorso o archivio personale, la sua playlist.  Nella quale niente è obsoleto. In poesia nascono i neometrici (che recuperano la rima e l’endecasillabo), in letteratura dopo tutte le sperimentazioni più audaci il romanzo “ben fatto” della tradizione, in pittura con la transavanguardia i neofigurativi, al cinema si riscopre il bianco & nero… Così anche in musica si rielaborano stili e tendenze del passato: Marsalis  attinge a  New Orleans, la world music si alimenta di folk e dialetto, i Buenavista Social Club ripropongono i ritmi cubani d’antan – il bolero, il cha ha cha, il son e anche il mambo – tutti sdoganati da Wim Wenders e Ry Cooder, che oggi ognuno potrà godersi perfino in vinile. In un mondo che sembra cancellare il passato, tutto appiattito su un presente a una dimensione, ecco che invece il passato ritorna come repertorio variegato e stratificato, offerto a  chiunque intenda servirsene. La contemporaneità parla tante lingue, e fortunatamente niente  può più essere considerato retrò. Dunque: viva gli anacronismi e viva il mambo!

Torniamo al concerto. Il fondatore e direttore della Mambo Puente Latino Orquesta (nella foto qui accanto), Elvio Ghigliordini, è uno dei maggiori flautisti in circolazione (e ottimo baritonista), ma qui – umilmente – si mette al servizio dell’orchestra e suona il proprio strumento soltanto in un brano. La band unisce una corposa sezione fiati da big band americana (cinque sassofoni, quattro trombe, tre tromboni) a una sezione ritmica di tipo cubano – timbales, congas, bongos e campana – oltre a piano e baby bass (Paolo Cozzolino, sodale del fondatore), e prevede la presenza di un cantante (Carlos Paz) e due coristi.  Ghigliordini ha scritto tutte le parti, con accuratezza e rigore, ma inserendo anche temi, citazioni, suggestioni personalissime, come quando in un brano latino classico, Anacaona, sentiamo riecheggiare le note di Bella ciao, o quando ci ripropone il superclassico Granada, immortalato dal reuccio Claudio Villa. Il repertorio della band ripercorre quello di Tito Puente, re del mambo, ma oggi chiunque ascoltandolo direbbe che si tratta di “salsa”. La questione è solo apparentemente intricata. Quando alla fine degli anni ‘60 nacque la salsa, a East Harlem – il barrio latino di New York – molti vecchi cubani protestarono definendola una riverniciatura del mambo (che aveva trionfato al locale Palladium di New York negli anni ’50). Ed è in buona parte così. Soltanto che la salsa – nata più dalla strada che dai club – si alimentò di sentimenti di rabbia, protesta, rivolta che erano tipici degli anni ’60, e si riempì di sonorità volutamente “sporche” (massiccio uso dei tromboni). Si pensi solo ai dischi del trombonista Willy Colòn. È comunque un genere largamente ballabile, orecchiabile, etc.  ma musicalmente assai meno facile di quanto possa sembrare. La figura ritmica dominante, quella del “tumbao” – fatta anzitutto dal contrabbasso – è tutta in levare, dunque “controintuitiva”, e può creare seri problemi di accompagnamento anche a un professionista jazz. Molto prima di Wenders, il film I mambo Kings suonano canzoni d’amore (1991), tratto dal romanzo di Oscar Hijuelos, e con un giovanissimo Banderas,  era stato un omaggio sontuoso al genere musicale: Puente vi impersonava se stesso, mentre in Radio days di Woody Allen, di qualche anno prima, aveva interpretato la parte di Xavier Cugat, con annesso cagnolino chihuahua in braccio.

L’orchestra Puente ha un suono intenso, limpido, eccitante, che vi culla per almeno due ore (hanno suonato il primo dicembre al teatro di Tor Bella Monaca e ogni tanto sono in cartellone all’Auditorium). È immediata e insieme musicalmente sofisticata. Come dicevo all’inizio, il mambo (o salsa) non possiede la durezza spavalda né la ironica ambiguità né la freddezza esibita di altri generi musicali di oggi (techno, rap, etc.), più vicini forse a una sensibilità giovanile,  inoltre i suoi testi ricordano le stucchevoli atmosfere di una telenovela latino-americana. Però ci invita ad abbandonarci al ritmo, parla in spagnolo (dunque, a metterla in termini ideologici: non la lingua dell’imperialismo!), rilancia il ballo di coppia, racconta sentimenti elementari – e universali – e allude a una vita meno repressa. In ciò – nel soddisfare questi bisogni – appartiene legittimamente alla contemporaneità, proprio come gli altri generi.

Ghigliordini da una parte fa una operazione filologica pregevole, poiché ce ne restituisce  fedelmente il nucleo vibrante, dall’altra “costringe” 20 musicisti a provare e riprovare, a suonare in locali  a cifre spesso irrisorie data l’ampiezza dell’organico, etc. (altra cosa evidentemente i concerti negli auditorium) solo per amore verso il genere stesso.  Ciò che tiene unita la band è un mix di piacere e disciplina, di passione e impegno:  una commovente dedizione, che niente ha a che spartire con le logiche  mercantili  oggi dominanti.  Ecco, tale attitudine – nobilmente inattuale –  è l’aspetto più utopico del progetto. O almeno tutto questo andavo meditando, quando sono uscito dal Felt sotto la pioggia battente, nel paesaggio vagamente berlinese dello scalo di San Lorenzo.

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