Danilo Maestosi
Al Museo Bilotti di Roma

Balla prima di Balla

Prima di essere cooptato dal futurismo (e di rivoluzionarlo), Giacomo Balla divise spazi e colori dipingendo Villa Borghese di Roma. Una mostra recupera questa sua stagione memorabile

Nell’estate del 1904, Giacomo Balla si istalla nella casa romana all’angolo tra via Paisiello e via Porpora insieme alla moglie Elisa, che ha appena sposato. Il suo appartamento su due piani è lo spicchio di un ex convento espropriato e trasformato in casa d’abitazioni. A procurarglielo è una raccomandazione del sindaco Ernesto Nathan, con cui Balla è entrato in amicizia dopo aver ritratto in due quadri di taglio tradizionale ma di grande impatto sia lui che la moglie. Trapiantato a Roma da Torino nove anni prima, Balla, 33 anni, è ormai un pittore benestante, ben introdotto nei salotti della capitale che contano, una carriera sigillata da mostre di successo e dalla prima apparizione alla Biennale di Venezia.

Eppure quella nuova casa segna una svolta decisiva nel suo modo di interpretare la pittura. Da una balconata al piano superiore si gode una vista incantevole su villa Borghese, da pochi anni passata in proprietà al Campidoglio e aperta al pubblico. Lo stupore di quello spicchio di campagna, costellato di edifici e monumenti e incuneato nella città urbanizzata non lo abbandonerà più. Quel parco, che visita e percorre a palmo a palmo, diverrà uno specchio di emozioni segrete e un laboratorio di esperimenti nei quali riflette e mette a punto con una produzione incessante il suo talento. Una sfida continua come quella del Mont Saint Victoire per Cezanne, che spinse lo sguardo del grande maestro francese verso le vertiginose sintesi di piani e colori che sfociarono nella rivoluzione cubista. A inventare questo geniale paragone è stato un critico d’arte doc, purtroppo scomparso, Maurizio Fagiolo Dell’Arca, alla cui scuola è cresciuta Elena Gigli, curatrice della piccola, preziosa mostra in cartellone fino al 17 febbraio al museo Bilotti di ROma, l’ex Aranciera del parco di fronte al Giardino del Lago: Balla a villa Borghese.

Una ventina di opere, tra cui molti pastelli su carta raramente esposti, sgranate nell’arco di appena sei anni, quei sei anni che documentano come un prologo gli scarti di elaborazione interiore, maturazione culturale e sintesi visive attraverso i quali Giacomo Balla approderà all’avventura del futurismo, che ne ha consacrato a livello mondiale la fama. E al quale, giustamente, questa mostra riserva solo una citazione: un funambolico intreccio di fili di ferro, datato 1914, e intitolato Linea di velocità + forma rumore, piazzato nell’atrio del museo. Appena quattro anni prima, nel 1910, il nome di Balla era finito in calce al manifesto della pittura futurista, in modo quasi casuale a sostituire la firma di un altro pittore, Bonzagni che, aggregato da Boccioni, Severini e Marinetti, si era all’ultimo momento sfilato. In quello stesso anno, Balla aveva realizzato il più noto dei tanti capolavori dedicati a villa Borghese, quel gigantesco polittico sul Parco dei Daini, che si può ammirare in una delle sale della Galleria d’arte moderna di Valle Giulia. Un concentrato di atmosfere, presenze di monumenti misteriosi, squarci di luce e penombre che sembra distantissimo dal taglio antiaccademico e dallo sferzante modernismo dei proclami e dei primi quadri futuristi. E distante dovette apparire anche a Severini e Boccioni, che promossero con qualche dubbio la cooptazione di Balla, che era stato loro maestro, nei gruppo dei soci fondatori; e pochi mesi dopo trovarono il modo di non esporre alla prima sfilata di cartello a Parigi l’immagine di una lampada di strada alonata da una corona di raggi luminescenti che Balla aveva spedito per l’occasione. Di fatto, il primo vero battesimo futurista di Balla avvenne solo nel 1912, con il vorticoso zampettìo di un cane al guinzaglio, in linea con le teorie futuriste sulla resa del movimento che rielaboravano gli esperimenti fotografici in sequenza di Muybridge. Una partenza al rallentatore, poi un balzo, più avanti di tutti: un tuffo nell’astrazione pura per catturare gli anarchici ricami delle emozioni e della velocità nello spazio, liberandosi dei fantasmi della figura che gli altri compagni futuristi, Boccioni compreso, si trascinavano ancora appresso.

A interpretare la storia dell’arte seguendo solo, come molti critici fanno, la bussola della discontinuità, tutta la produzione di Balla che precede il suo arruolamento nelle truppe di Marinetti rischia di apparire irrilevante. Poco più di una curiosità biografica questa carrellata di opere inizio secolo esposta qui al museo Bilotti. Opere che invece diventano decisive per comprendere attraverso quali esperienze, quali slittamenti e quali travasi di stile Balla arriva al futurismo fino a incarnarne insieme a Boccioni la voce qualitativamente più significativa. E innovativa.

La chiave è nello straordinario metabolismo del suo modo di dipingere e abitare attraverso la pittura i fermenti del suo tempo, gli stessi lavori di altri artisti con cui entra in contatto. Esemplare di questo suo modo di procedere, per la libertà che gli concede, il campionario di pastelli su carta con cui insegue l’anima stratificata e sfuggente di villa Borghese. La tecnica cui fa ricorso è quella del divisionismo, un’eredità del suo lungo soggiorno a Parigi inizio secolo, nel quale entra in contatto dal vivo con i quadri degli impressionisti e dei postimpressionisti e quel loro inconfondibile modo di inseguire il tempo attraverso la luce e la scomposizione cromatica. Ma il suo modo di interrogare la Natura e inseguirne la verità è diverso. Più intenso ed emotivo, senza scivolare però verso quell’alone indefinito di simbolismo che caratterizza i divisionisti milanesi, con cui Boccioni condivide maggiori affinità. Diversa la stesura dei segni, che in questi lavori a pastello risalta a colpo d’occhio, se ti avvicini alla pelle di quei fasci di colori. Più che a linee nette o a piccoli punti Balla ricorre nell’inseguire il movimento e le vibrazioni di luce ad un alternanza di circoli, semicerchi, virgole liquide, tracce dinamiche. Quasi una prova, una profezia, di quella progressiva sintesi di vettori intrecciati che caratterizzerà la sua esperienza futurista.

Diverso è anche l’impianto della visione, organizzato da linee e partiture scandite di piani, che riflettono la sua passione per la fotografia, ancor più evidente nei ritratti in cui la pelle è accesa di luci radenti come in uno studio di posa, le sagome perdono e acquistano contorni. La discontinuità raggiunta attraverso strade e connessioni di continuità. Come succederà alla sua istintiva empatia per i deboli , gli emarginati, le fragilità della condizione umana. Empatia coltivata nel giro di intellettuali romani che si battevano per il riscatto dei contadini dell’Agro. E documentata, qui in mostra, dalla vibrante e intensa tela del 1903, Il Contadino, inclusa nel ciclo I Viventi.

Un senso d’umanità che riaffiora in fondo anche in una dei suoi più ambiziosi progetti futuristi, messo a punto insieme a Depero: l’idea di contribuire alla felicità dell’uomo, confezionando abiti, mobili, vestiti, scenografie, che lo immergano in un universo colorato di stimolante allegria. Una stagione di ingenua ma feconda utopia che conclude la sua partecipazione al movimento. Nel 1937, il clima di una seconda devastante guerra che già incombe e non porterà al mondo nessuna speranza di rigenerazione, Balla si chiamerà fuori e tornerà ad immergersi nel ritorno all’ordine della sua villa Borghese.

Alla mostra di Balla, il cartellone a mosaico del museo Bilotti affianca il contrappunto casuale di un altro incontro da non perdere. Quello con la stralunata figurazione di Josè Molina, un artista spagnolo trapiantato in Nord Italia, che approda alla pittura dal continente parallelo del fumetto d’autore. Una mostra, curata con una mirata selezione da Roberto Gramiccia, che trova il suo motivo conduttore nel tema dell’Acqua, culla e motore dell’universo secondo Talete. Alla consistenza sfuggente e al potere metamorfico dell’Acqua Molina rende omaggio con un campionario di stralunate e inquietanti divagazioni surreali. Tra le opere che più mi hanno colpito una variazione fuori schema sulla nascita di Venere: le gambe trasformate in denti di tricheco il corpo solcato dai segni di una vecchiaia precoce, più un memento mori che un inno alla bellezza dell’amore.

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