Carmen Verde
Parole e ombre/7

Il gioco

«Io attraversavo frettolosamente le giornate per arrivare al traguardo. Aspettavo solo che mamma andasse a dormire, allora mi mettevo distesa al buio, Maddi arrivava e finalmente appoggiava la testolina sulla mia coperta»

Fotografia di Alessandro Bortolozzo

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Da giorni facevo le prove: mi mettevo distesa sul letto, a mani giunte. Una volta rubai addirittura un ciclamino dalla pianta di mamma sul terrazzo e lo tenni fra le mani tutta la notte. Quella sera mia sorella entrò a piedi scalzi, si accostò al letto e se ne andò com’era venuta, lasciando socchiusa la porta. Arrossì la mattina dopo, quando mi vide in cucina alla solita ora, china sulla scodella del latte. E subito s’imbronciò, quasi dispiaciuta che non fossi morta per davvero.

Sss, feci sottovoce, è un segreto…

Lei distolse lo sguardo.

Non mi offesi, lo faceva sempre. Quello era l’unico momento in cui il mio sguardo e il suo si incontravano. Il mio occhio storto provava allora una specie di gioia, le mandava un sorriso lieve.

Cominciai il gioco per Maddi, soltanto per farle piacere. Mia sorella aveva i capelli scuri e una carnagione di pesca, pareva una Madonna. I suoi occhi erano una benedizione, trasparenti come perle; i miei, invece, sfuggivano di lato, brutti come l’orlo sbeccato del bricco per il latte. Maddi osava guardarli soltanto di nascosto, e anche allora pareva li studiasse, come si fa con un insetto: credo cercasse, da qualche parte in loro, l’origine dell’errore. Ci stupivamo entrambe della nostra somiglianza. I miei capelli erano scuri come i suoi, eppure parevano sbiaditi. Io stessa sbiadivo vicino a lei. Eravamo come attaccate per le piante dei piedi, lei di sopra io di sotto, cosicché tutto di Maddi fluiva in me rovesciato, come il sole in una pozzanghera. Mia sorella aveva per me un’ostilità che lasciava senza fiato, dunque io l’amavo (non potevo non amarla); e più lei mi disprezzava, più le volevo bene. Non ero felice, s’intende. Come gli uccelli, i gemelli si dividono in chi cerca tutte le note e chi si accontenta di ripeterne una soltanto: a me toccava ripetere quell’unica nota, la più profonda, e svolgevo il mio compito con umiltà.

La sera dopo giocai di nuovo a morire, di nuovo lasciai accostata la porta. Lei tornò. E la sera dopo anche; e poi di nuovo.

Cosa aspettano i bambini? Io attraversavo frettolosamente le giornate per arrivare al traguardo. Aspettavo solo che mamma andasse a dormire, allora mi mettevo distesa al buio, Maddi arrivava e finalmente appoggiava la testolina sulla mia coperta: con tenerezza, tanto che mi sembrava di non conoscerla affatto.
Fuori, oltre i tetti, lungo la strada non asfaltata, le baracche dei fiorai rimanevano aperte tutta la notte, i vasi colmi di fiori recisi, circondati da nugoli di zanzare. Un giorno, chissà, Maddi e io saremmo morte per davvero (oppure a noi non sarebbe toccato morire?). Nell’attesa, ci sbiancavamo le labbra a forza di morderle, lasciando le finestre spalancate perché il cielo vegliasse su di noi. Da bambini le notti sono lunghe un’eternità.
A volte i suoi capelli mi restavano impigliati nelle unghie e la mattina dopo, appena sveglia, li conservavo nella scatolina dell’anello, regalo per la mia prima comunione (l’anello che non si poteva mettere, con lo zircone che a forza di stare al chiuso s’era fatto opaco).

Quella sera, sentii la porta della camera aprirsi e mi parve che Maddi entrasse. Mi sembrò addirittura che l’aria mossa dalla sua camicia da notte facesse oscillare la fiammella della candela che tenevo tra le dita. Invece quella fu la prima volta (la prima) che non entrò. Dopo un’ora, forse due, la candela si spense. Al mattino, gli occhi perfetti di Maddi mi parvero più seri, stanchi.

Non tornò più, né quella notte né quelle dopo. Io non smettevo di aspettarla: con la stessa intensità, a occhi chiusi (soltanto chiusi i nostri occhi si somigliavano, finalmente). Cercavo di indovinare il suono dei suoi passi, ma le notti trascorrevano sorde, senza passi, piene solo di attesa. Era quella l’eternità. Il buio si faceva via via più scuro e poi via via più chiaro e poi via via più niente. Lei non veniva più. Sì, forse avrei potuto fermarmi: stop, fine. Invece, tutte le notti continuavo a morire per gioco. E tutte le mattine, per gioco, tornavo in vita. Era un veleno e insieme un calmante. Può essere atroce, l’infanzia.

E Maddi? Oh, lei sapeva che alla fine sarei andata io da lei. Altrimenti perché, quella sera, lasciò la porta della sua camera socchiusa? Spiai. La vidi. Distesa, le mani intrecciate sul petto, la testa piegata di lato: era bella, la pelle trasparente come un cavalluccio marino. Ecco cosa faceva: giocava da sola. Traditrice. Da quanto tempo? Attenta, ti trema la bocca, le dissi, sottovoce. Non era vero, volevo solo farla arrabbiare. Lei ebbe come un fremito, ma non si mosse. Respirava appena, sotto la camicia da notte. Respiri corti, che le lasciavano il petto quasi immobile. Giocava bene, niente da dire. Il suo morire era sottile come un velo; il mio, al confronto, pareva una mascherata. Maddi sembrava conoscere a fondo qualcosa di cui io intuivo soltanto l’inizio. Mi faceva rabbia il suo gioco solitario, quella mania di rubarmi sempre tutto. Mi stesi muta ai piedi del suo letto, come un cane. Perché aspettare? pensai, e lei mi lesse nel pensiero. Sì, perché aspettare? Chi comincia? Tirammo a sorte, toccò a me. Il gioco era semplice: non respirare nemmeno per un attimo. Fino a quando? chiesi. Fino a sempre, rispose. E quand’è sempre? Sempre è sempre.

Trattenne il fazzoletto sulla mia bocca con delicatezza, per aiutarmi a non respirare (era quella la regola). Mi premeva sulle labbra, e premendo mi spingeva ancora più sotto: glugluglu. Quanti secondi passarono? Dieci, quindici, mille, il tempo esatto che divide il gioco dalla realtà. Maddi era sempre più lontana, in cima a una montagna. Lasciò che io vincessi al primo turno. Aspetta, non sono pronta! provai a dirle alla fine, ma lei non sentì. Oppure sentì, ma non volle fermarsi. Il mio occhio storto sbatteva, impazzito. Fui brava però, rimasi immobile. La mia prova migliore. Solo in ultimo ebbi una specie di singhiozzo. Soltanto un attimo. Poi presi il volo e tutto si rovesciò. Io sopra, lei sotto. Maddi pesante, io leggera, finalmente.

Vado ancora a trovarla di notte (ogni notte), per darle la rivincita: ‘vado’, ma non c’è arrivo né partenza. Le sue guance diventano sempre più pallide, il naso più ossuto. Ora ha al dito il mio anello con lo zircone. Discutiamo, furiosamente. La prenderei a schiaffi. Le trecce scure sulle spalle, i denti serrati sul labbro di sotto, ancora prova a piegare la testa per non guardarmi negli occhi. Ma non può. Dall’alto dove sono, ora tocca a me: le scorro tutto il giorno sul viso come una lacrima di seconda mano. Giochiamo, Maddi? Non vuole. Dice che non giocherà mai più. Maddi dice che coi morti non si gioca.

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Carmen Verde vive e lavora a Roma. Alcuni suoi racconti sono presenti in antologie (Nottetempo edizioni, Cadillac). Nel 2014 è stata tra i vincitori del premio LuccAutori – Racconti nella Rete, l’anno successivo si è classificata seconda al Premio Zeno con il racconto “Guida astronomica al Grande Raccordo Anulare”. Nel 2018 il romanzo “Tutta la vita dietro un dito”, di cui è co-autrice con Alex Oriani, ha ricevuto una segnalazione al Premio Letterario Italo Calvino. Fa parte della giuria dei premi letterari LuccAutori – Racconti nella Rete e Il Foglio Bianco.

Alessandro Bortolozzo nasce a Monterotondo nel 1995. Diplomando in Pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Roma, cresce in un ambiente permeato da camera oscura, diapositive, gite fotografiche per i boschi grazie al padre, fotografo amatoriale, e riscopre tale forma artistica durante gli studi accademici, decidendo di virare il percorso e gli studi artistici da un approccio prevalentemente pittorico a uno più marcatamente fotografico. Conosce nel 2018 Luciano Corvaglia, grazie al quale espone in occasione del Mostro #9 alla TAG (Tevere Art Gallery) e partecipa sempre con la TAG al festival Voies Off ad Arles nell’estate 2018

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