Paolo Petroni
A proposito de "La capitale"

Europa, addio!

Robert Menasse, studioso austriaco di problemi dell'Europa, ha scritto un corposo romanzo sulla fine di un'illusione novecentesca: la possibilità di unire in un unico corpo istituzionale tante realtà sociali e culturali diverse.

Un romanzo curioso e intrigante, specie di questi giorni in cui il dibattito sull’Europa e la sua capacità di rinnovarsi e andare avanti sulla strada dell’unificazione o il suo disgregarsi si è fatto molto accesso e, in vista delle prossime elezioni, anche ultimativo? Lo ha scritto Robert Menasse e si intitola La capitale (Sellerio ed., pp. 448 – 16,00 euro – Traduzione di Marina Pugliano e Valentina Tortelli). Ci racconta la probabile fine di un sogno, quello di un’Europa davvero unita, attraverso un ritratto della vita quotidiana dei tecnocrati di Bruxelles, la capitale sede del governo Eu, e l’idea di un evento per celebrare i 50 anni della Commissione europea, che si fa metafora dell’attuale impasse della possibilità di portare avanti il progetto dei padri fondatori e dare un futuro reale ai paesi europei. Del resto Menasse, studioso austriaco di problemi della Eu, è stato per alcuni anni ospite della Commissione stessa quale osservatore, e sa quindi di cosa parla, con sguardo ironico, quindi disincantato e disilluso, ma non vinto scrivendo in quest’epoca di rinascite populiste e nazionaliste.

Al centro quindi il progetto di celebrare il Jubilée della Commissione, partendo dalla frase “Mai più Auschwitz”, vedendo la Shoah come frutto terribile del prosperare dei nazionalismi durante la crisi economica tra le due guerre mondiali, per portare avanti appunto l’istanza di un superamento dei nazionalismi e infine delle nazioni, quale aspirazione etica e politica di una vera Europa unita. Gli ultimi sopravvissuti dei lager nazisti avrebbero dovuto quindi essere testimoni di questa necessità, nata non a caso dopo la Liberazione.

Allora, accanto ai burocrati, alcuni che lavorano a definire questo progetto, altri che si muovono per affossarlo perché capi di stato e governi dei paesi membri di questi tempi non lo avrebbero mai accettato, ecco l’anziano professor Alois Erhart e il pensionato David De Vriend. Il primo è chiamato a dare un suo contributo al think tank “New Pact for Europe”, e, tra utopia e realismo, propone senza mezzi termini, a colleghi che lo ascoltano con sufficienza, «una comunita postnazionale, nata dalla consapevolezza degli errori storici commessi», che dovrebbe costruire una sua capitale tutta nuova proprio ad Auschwitz, come unica possibilità di sopravvivenza di un’Unità dell’Europa. Il secondo che è un sopravvissuto di Auschwitz che, lasciata la casa dove è sempre vissuto e andato a vivere in un pensionato per anziani davanti al cimitero di Bruxelles, muore a segnare proprio una fine definitiva, a rendere passato il passato. Come diceva Erhart «quando sarebbe morto l’ultimo in grado di testimoniare il trauma dal quale l’Europa era uscita con l’intenzione di reinventarsi, Aushwitz per i vivi si sarebbe inabissata sui fondali della memoria come le guerre puniche».

Il romanzo è costruito seguendo e intrecciando fili diversi, l’impegno e le vite di un certo numero di personaggi, talvolta parallele, tutti che finiscono però per essere emblematici e la cui realtà è venata di una leggera sensazione di assurdo, grazie all’ironia dello sguardo dell’autore (e per questo basterebbe il racconto della visita del funzionario della Commissione europea alla cultura Martin Susman a Auschwitz). Ma c’è di più, per esempio un maiale che, come il rinoceronte di Ionesco, corre per le strade di Bruxelles, sfuggito durante una manifestazione di protesta di agricoltori e sembra avere una vita propria che sfugge a ogni ricerca, ora vero, ora immaginario, capace di mettere paura come di suscitare simpatia. Del resto è un allevatore di maiali il fratello di Susman, che dopo il suo viaggio ha avuto l’idea di partire dall’olocausto per le celebrazioni con cui il suo capo, Fenia Xenopoulou, vuole rendersi visibile e farsi ricordare per una promozione-trasferimento, che poi arriverà per tutt’altre e assurde ragioni. A tutto questo si aggiunge una nota gialla: essendo Bruxelles un nodo politico ormai nevralgico nel panorama mondiale, vi operano servizi segreti più o meno senza scrupoli e, in questo mondo di funzionari e dirigenti europei, ecco quindi un omicidio su cui all’improvviso non si deve più indagare e di cui nessuno parla e un commissario che invece vorrebbe capirci qualcosa e non arrendersi al caos che lo circonda.

Tanta carne al fuoco, sicuramente, ma sufficientemente amalgamata in un intreccio in cui si riescono a seguire le varie trame e a capire le interconnessioni, quelle ideali e quelle reali, nella concretezza degli avvenimenti di questi anni, dalla Brexit agli atti di terrorismo, e di Bruxelles, città raccontata da Menasse con tanto di nomi di vie e piazze, di ristoranti e pub, facendo pian piano, implicitamente, di questa narrazione della vita nel cuore burocratico e politico dell’Europa, una denunzia, un cercare di renderci consapevoli che il professor Erhart in fondo ha ragione e, se non accettiamo di metterci davvero in comune, ognuno finirà di nuovo e drammaticamente isolato.

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