Mario Di Calo
Visto al San Ferdinando di Napoli

L’epica di Borrelli

“La cupa", il nuovo, potente spettacolo di Mimmo Borrelli è un poema allegorico dedicato a un'umanità che è fuggita in avanti dimenticando il proprio passato. Il tentativo di ricucire la modernità con i miti classici

Nel 2016 (con ripresa la scorsa stagione) il Piccolo Teatro di Milano produsse Sanghenapule uno spettacolo “palleggiato” fra Roberto Saviano e Mimmo Borrelli su testi e interpretazione di entrambi; ora era giusto e doveroso che il Teatro Stabile di Napoli producesse integralmente uno spettacolo di un erede naturale di quella grande madre che è la lingua teatrale napoletana. E cosi è nato uno spettacolo mastodontico, titanico e simbolico, suddiviso in due parti portato in scena dal 10 aprile al 6 maggio al Teatro San Ferdinando ovvero: La Cupa, Fubbula di un Omo che divenne Albero, versi, canti e drammaturgia di Mimmo Borrelli!

Partiamo dallo spazio che l’autore di Bacoli immagina per il suo poema di circa quindicimila versi ricondotto alla scena lievemente sfrondato; la sala di via Foria perde la sua connotazione abituale a favore di un palcoscenico che straripa, deborda, deflagra in platea, come uno tsunami: l’azione difatti si svolge a pochi centimetri dallo sguardo dello spettatore – a volte gli attori appaiono e scompaiono alle sue spalle – per cui l’azione tende a rendere colui che partecipa emotivamente ai fatti raccontati, quasi attore egli stesso. Una regia che valorizza ogni singolo elemento che compone questa magnifica orchestra di assoli; in un concertato da brividi che in alcuni momenti fa accapponare la pelle. Emozioni che ne subissano altre, che non accennano mai a demordere fra prima e seconda parte, in un totale di circa quattro ore di spettacolo.

In scena, lo stesso Borrelli, nei panni di Giosafette Nzamamorte che quasi si ritrae a favore degli altri suoi interpreti, si abbandona a una declamazione sospesa, fra trance e raziocinio, con una crepitazione che lo rende vieppiù affine all’esoterico, al misterioso, quasi un officiante di un rito ditirambico. Fra gli altri nominerei Gennaro Di Colandrea come Tummasino Scippasalute, antagonista straordinario, che rivela una fisiognomica sonora accattivante, oscura, a tratti nervosi e felini; Autilia Ranieri sempre più brava; un clamoroso Maurizio Azzurro come Pagliuccone e la coppia sfortunata dei giovani amanti formata da un energico e vibrante Renato De Simone e una straziante Mariella Fontana – divisa stavolta dalla sorella siamese – cardillo accecato per amore che canta ed enuncia il suo dolore in modo lacerante. Infine gli altri, generosissimi fino allo sfinimento: Dario Fontana, Gaetano Colella, Veronica D’Elia, Paolo Fabozzo, Enzo Gaito, Geremia Longobardo e Stefano Miglio.

Il materiale composto in versi, dicevamo, che questi egregi attori espongono, è solo casualmente detto in quella nobile parlata che è il napoletano, ma potrebbe esserlo in qualsiasi altra lingua: una storia che parte da lontano, che ci parla di faide, di tradimenti, di amputazioni, di soprusi, di incesti. Raccontare il presente raccordandosi al passato, al nobile passato quando l’uomo ha avvertito l’esigenza di raccontarsi attraverso uno strumento che lo facesse crescere e maturare, con l’ausilio della sacralità del teatro. L’umana contemporaneità deve passare attraverso l’arcaismo per purificarsi, per salvarsi. Come teorizzava Nietzsche nella Nascita della tragedia, le forze opposte, Apollinee e Dionisiache, dànno origine a una novella forma di arte, cosi in La Cupa le forze del bene si oppongono a quelle del male in un’allegoria ciclica, e l’amore che sboccia fra Rachela e Vincenzo (quest’ultimo con un trascorso di apprendistato sessuale omosex, come migliore tradizione antica vuole) non può avere origine poiché troppi significati potrebbero svelarsi in quell’innocente sentimento. Raccontare il mondo, come un odierno Titano, immaginando un luogo ancestrale, simbolico, procreativo come una cava di tufo, (il titolo del poema significa appunto questo) un buco nella terra che offre da vivere a coloro che vi lavorano, e un gruppo di minatori che si aggirano intorno ad essa. La struttura familiare come terra da spurgare da tutte le scorie radioattive sotterrate nel corso di tutti questi anni. Storia, in sintesi, di una civiltà che corre troppo in fretta e che dovrebbe ritrovare il tempo per interrogarsi e per riflettere su che direzione si sta orientando.

Una menzione speciale va alle luci incantate di Cesare Accetta e le musiche dal vivo di Antonio Della Ragione, componenti essenziali di questo incantesimo che dura l’arco di una vita, fin quando quel piccolo germoglio di un albero che sta nascendo sulle spoglie dell’eroe sconfitto può predisporre a un nuovo corso ad una novella umanità.

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