Roberto Verrastro
A proposito di “Uccidere King”

L’affaire King

A cinquant'anni dell'attentato, due giornalisti americani ricostruiscono tutte le trame che portarono all'omicidio di Martin Luther King grazie a un'inedita alleanza tra razzisti e mafia. Sotto gli occhi "addormentati" dell'FBI

Un criminale mosso dal solo intento di fare soldi e che agì nell’ambito di un piano elaborato nel corso di alcuni anni, giunto a compimento a Memphis, nel Tennessee, il 4 aprile 1968. È il ritratto di James Earl Ray, l’assassino del leader del movimento per i diritti civili degli afroamericani Martin Luther King, che emerge da un volume pubblicato nel cinquantesimo anniversario di uno dei più intricati omicidi politici del Novecento, Uccidere King-Terroristi razziali, James Earl Ray e il piano per assassinare Martin Luther King Jr.(Counterpoint Press, 304 pag., 21,25 euro, ebook 15,20 euro), scritto attingendo a documenti dell’FBI dagli storici statunitensi Stuart Wexler e Larry Hancock. Gli autori, la cui tesi di fondo è in parte coerente con le conclusioni dell’HSCA (House Select Committee on Assassinations), la commissione d’inchiesta istituita dal Congresso statunitense nel 1976 per fare luce sugli omicidi di John F. Kennedy e King, ricordano nell’introduzione che, tra il 1958 e il 1968, ebbero luogo almeno nove tentativi di uccidere King che, non essendo un capo di Stato protetto da forze armate e servizi segreti, vi era scampato con la fortuna e mutando all’ultimo momento l’itinerario dei suoi spostamenti.

Nel Mississipi, uno dei pochi Stati con la maggioranza della popolazione non bianca, alla fine del 1963 si formò la più violenta organizzazione razzista degli Stati Uniti, i Cavalieri Bianchi del Ku Klux Klan, guidati da Samuel Holloway Bowers, nato nel 1924 in una ricca famiglia di New Orleans e morto a 82 anni nel penitenziario di Stato del Mississipi il 5 novembre del 2006. Animati dall’idea di una guerra santa razziale, diffusa dal suo pulpito nel sud della California dal pastore metodista Wesley Albert Swift e amplificata dal movimento Identità Cristiana, sostenitore di una supremazia bianca declinata anche con attentati a sinagoghe tra il 1957 e il 1958, in una versione antisemita per lo più invisa al Ku Klux Klan, i Cavalieri Bianchi furono responsabili di oltre 300 atti di violenza razziale, compreso quello che l’FBI classificò come Miburn, acronimo del Mississipi Burning reso celebre dall’omonimo film di Alan Parker del 1988 con Gene Hackman e Willem Dafoe. Una definizione relativa all’omicidio di tre attivisti per i diritti civili, Mickey Schwerner, Andrew Goodman e James Chaney, avvenuto nel 1964 dopo il loro pretestuoso arresto da parte dello sceriffo della contea di Neshoba, Lawrence Rainey, segretamente affiliato ai Cavalieri Bianchi. In base a una strategia ideata da Bowers più di un mese prima, il 21 giugno Rainey rilasciò i tre attivisti, la cui auto fu seguita lungo un’autostrada buia dai killer del Ku Klux Klan coadiuvati dal vicesceriffo Cecil Price, che la spinsero fuori strada e ne uccisero gli occupanti nei boschi adiacenti. Il crimine indignò la nazione, sottolineano Wexler e Hancock, soprattutto perché due delle vittime, Schwerner e Goodman, erano bianchi.

Dal 1964, quattro tentativi di assassinare Martin Luther King furono compiuti proprio da Bowers, l’unico dei Cavalieri Bianchi a poter emettere un «codice quattro», com’era chiamato nel gergo dell’organizzazione il via libera a un attentato dinamitardo o a un omicidio. A dispetto delle imprudenti millanterie dello stesso Bowers con un informatore dell’FBI alla fine del 1964, i Cavalieri Bianchi non riuscirono a racimolare i 13mila dollari richiesti da Donald Eugene Sparks, uno spietato killer su commissione originario dell’Oklahoma, per uccidere King in visita nel Mississipi dopo gli eventi di giugno, servendosi di un fucile ad alto potenziale con mirino telescopico. Nel 1965, Bowers ipotizzò pertanto come opzione secondaria l’esplosione di un ponte autostradale al passaggio di King. Sparks, negli ambienti malavitosi detto ironicamente Two Jumps, due salti, perché alla passione per l’omicidio univa con la stessa prontezza quella per il rodeo, militava nella Dixie Mafia, associazione autoctona attiva nel Sud degli Stati Uniti che, a differenza di Cosa Nostra, mancava di solito di una gerarchia formale con un padrino al vertice quale mandante dei delitti, articolandosi piuttosto in un arcipelago di bande indipendenti ma spesso più spericolate di quelle della mafia italoamericana, al punto che era lo stesso Sparks a venire ingaggiato dalle famiglie criminali siciliane per gli omicidi più rischiosi.

Un simile contesto criminogeno era noto alla Casa Bianca: «Il presidente Lyndon Johnson in persona ordinò all’FBI di rinforzare la sorveglianza a King quando attraversava il Mississipi nel 1964 e nel 1965», scrivono Wexler e Hancock, aggiungendo però che Johnson, che dopo il Miburn temeva disordini nel Mississipi se l’omicidio King fosse andato a segno, «sapeva che il direttore dell’FBI J.Edgar Hoover godeva di tutto tranne che di uno stretto legame con il leader per i diritti civili». Un aspetto del caso trascurato all’epoca dall’HSCA e oggi evidenziato dagli autori, è che King fece il grave errore di criticare pubblicamente l’FBI per le sue fallimentari indagini su decine di omicidi di attivisti per i diritti civili in tutto il Sud. Il potentissimo Hoover, «maniacalmente protettivo della reputazione della sua agenzia, rispose pubblicamente etichettando il dottor King come un nemico della legge e dell’ordine e insinuando che l’attivista intrattenesse solidi rapporti con i comunisti». Agenti agli ordini di Hoover spedirono a King una lettera che alludeva alle sue presunte relazioni extraconiugali, e alla moglie Coretta un nastro spacciato per la registrazione di un incontro del marito con un’amante. Peggio ancora, dal 1965 Hoover impose ai suoi sottoposti di informare dei pericoli incombenti solo le forze di polizia competenti e non l’entourage di King, idea nella migliore delle ipotesi avventata, in quanto le prime «spesso includevano un gran numero di esponenti e simpatizzanti del Ku Klux Klan». Tanto più che il fatto che Two Jumps fosse l’anello di collegamento tra la Dixie Mafia e i Cavalieri Bianchi fu confermato proprio nel 1965 all’FBI da una soffiata di Hermit Eugene Wing, un gangster dell’Oklahoma in contatto con Sparks.

L’Fbi sottovalutò «il ben consolidato modus operandi della Dixie Mafia di organizzare crimini da dietro le sbarre di una prigione». Il piano del 1964 che faceva perno su Sparks, nel frattempo ricercato e finito in carcere nell’Alabama, riapparve nel 1967 come «piano Sparks-McManaman». Il 2 giugno del 1967, in una prigione di Sherman, nel Texas, il ladruncolo e truffatore Donald Nissen raccontò agli agenti dell’FBI di Dallas che, nel suo precedente soggiorno nel penitenziario federale di Leavenworth, nel Kansas, un certo Leroy McManaman gli aveva proposto di dividere con lui una ricompensa di 100mila dollari per uccidere King, che era nato ad Atlanta, in Georgia, proprio la città in cui Nissen aveva incautamente rivelato di voler andare a «lavorare» al termine della detenzione. Nissen, al quale fu garantita la collaborazione di numerosi intermediari, rifiutò con apprensione, perché anche McManaman era associato alla Dixie Mafia e conosceva bene Donald Sparks. Molto allarmante era l’incremento della taglia su King fornita dai ricchi razzisti del Sud (vi furono segnalazioni su tre uomini d’affari della Georgia che l’FBI non verificò), così come la nuova tattica di coinvolgere delinquenti abituali estranei alla criminalità organizzata: la categoria di cui faceva parte James Earl Ray che, prima dell’omicidio King, aveva già trascorso tredici anni in quattro diversi penitenziari, dall’ultimo dei quali, quello di Jefferson City, nel Missouri, in cui era altrettanto nota l’esistenza della taglia su King, dopo due tentativi falliti riuscì a evadere il 23 aprile del 1967.

Dopo avere lavorato come lavapiatti a Chicago per 94 dollari alla settimana, usando gli pseudonimi «John L.Rayns» ed «Eric Starvo Galt» Ray fuggì dapprima in Canada, e riattraversò gli Stati Uniti per dirigersi a ottobre in Messico, dove diceva di essere uno scrittore americano e tentò perfino di avviare un business nella pornografia. All’inizio della primavera del 1968 stabilì la sua base operativa ad Atlanta, che lasciò il 3 aprile per dirigersi a Memphis, dotato di un fucile Remington 760 con mirino telescopico variabile Redfield, acquistato personalmente il 30 marzo in un’armeria di Birmingham, nell’Alabama, presentandosi come «Harvey Lowmeyer». A Memphis si registrò come «John Willard» per ottenere una camera nella pensione Bessie Brewer’s, di fronte al Lorraine Motel che il 4 aprile ospitava Martin Luther King. Alle 18.01, gli bastò sparare un solo proiettile calibro 30 al volto per uccidere King che era affacciato a un balcone del secondo piano: lo stesso metodo che, per una cifra inferiore, avrebbe dovuto impiegare Donald Sparks quattro anni prima. King, che aveva solo 39 anni, fu dichiarato morto al Saint Joseph Hospital alle 19.05, l’ora in cui si infranse il sogno americano. Ray morì in carcere a 70 anni a Nashville, nel Tennessee, il 23 aprile 1998.

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