Alberto Fraccacreta
Il premio Nobel per la letteratura

Universo Ishiguro

Kazuo Ishiguro, con i suoi romanzi, ha traghettato la cultura giapponese nel vasto laboratorio della lingua inglese, rimescolando le carte del “mondo fluttuante” nel quale convivono tutte le culture

Premio Nobel per la letteratura a Kazuo Ishiguro, ma il risultato non cambia: come l’anno precedente, è un autore in lingua inglese a vincerlo. Dal 1990 sono ben 11 i nomi anglofoni a cui è stata conferita l’onorificenza più desiderata nel campo delle lettere. Dall’inizio dell’assegnazione sono addirittura 29 contro i 14 della seconda lingua in classifica, il francese.

Ishiguro, nato a Nagasaki l’8 novembre del 1954, è un romanziere di origine nipponica appunto, naturalizzato britannico. Si trasferì a Guilford in Inghilterra con la famiglia all’età di sei anni. Si laurea in filosofia a Londra e incomincia la sua parabola letteraria con Un pallido orizzonte di colline nel 1982. Da lì una serie di titoli che hanno riscosso molto successo presso il pubblico e la critica, come Quel che resta del giorno (Booker Prize nel 1989) e Non lasciarmi (Premio Alex nel 2005), entrambi diventati film, l’uno diretto da Mark Romanek, l’altro da James Ivory (con Anthony Hopkins nella parte del maggiordomo). Secondo un aneddoto riportato dal Fatto quotidiano, a Ishiguro «bastarono quattro settimane per scrivere Quel che resta del giorno nell’estate del 1988, rinchiuso in una casa a sud di Londra e obbligato dalla moglie a scrivere ogni giorno dalle 9 alle 22.30, escluso la domenica, con un’ora di pausa per pranzo e due per la cena». Un ritmo massacrante, simile a quello che si imponevano Keroauc e Simenon. Otto sono stati, invece, gli anni di lavoro per la stesura del suo romanzo più recente, pubblicato in Italia da Einaudi (assieme ad altri sette titoli), Il gigante sepolto, che vede Axl e Beatrice nel tempo fantastico del ciclo arturiano ancora alla ricerca di un sentimento di purezza e splendore che li unisca.

Non c’è dubbio che nella sua prosa Ishiguro prediliga i piani sfalsati della coscienza, la sottigliezza psicologica, il senso crepuscolare di insufficienza esistenziale (sentito da molti personaggi come veri alteri-ego dell’autore), la liricità dell’atmosfera e del particolare, ma che il tutto si armonizzi nella tensione a un’ipotesi di soggettività completamente conscia del proprio “possibile”, perfettamente «nobile» nel «guardarsi dentro e vedere la vita che si è vissuta», come è detto in Un pallido orizzonte di colline.

La motivazione, infatti, non si allontana da tale spettro interpretativo: «per avere rivelato l’abisso al di sotto del nostro senso illusorio di connessione col mondo, in romanzi di grande forza emotiva». Sara Danius, la “segretaria” del Nobel, ha fatto anche leva sull’«integrità morale» del premiato e ha collegato l’opera di Ishiguro agli affreschi di Jane Austen o agli stati allucinatori di Kafka, filtrati dall’intelligenza narrativa e “narcotica” di Proust. Ma l’apporto più rilevante (e interessante), l’aspetto per così dire che caratterizza il suo universo letterario, risiede forse nell’ampia operazione interculturale proposta dallo scrittore giapponese, che si pone così in piena linea espressiva con Salman Rushdie — il quale si è, per altro, complimento con l’amico scherzando anche sulla precedente assegnazione — e Hanif Kureishi, entrambi solutori nell’inglese di elementi stilistici e concettuali appartenenti a diverse culture. Con essi — e ancor prima con Derek Walcott e Toni Morrison — Ishiguro si fa portavoce di quella “ospitalità linguistica” additata da Ricœur come chiave di volta delle implicazioni etiche insite nel linguaggio. «Al piacere di abitare la lingua dell’altro — scrive il filosofo francese — corrisponde il piacere di ricevere presso di sé, nella propria dimora d’accoglienza, la parola dello straniero».

Ishiguro ha traghettato la cultura giapponese nel vasto laboratorio dell’inglese, rimescolando le carte del “mondo fluttuante” e facendo ben comprendere come si possa, in fin dei conti, coabitare sotto lo stesso tetto umano di quel buffo spaesamento che è il vivere.

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