Elisa Bondavalli
Dietro le quinte della Mostra

Modello Barbiana

A Venezia arriva «Barbiana 65. La lezione di Don Milani» un bellissimo documentario di Alessandro D'Alessandro che raccoglie anche l'ultima, inedita testimonianza del grande pedagogo

Dalla 74a Mostra del cinema di Venezia, vogliamo oggi parlare del documentario-evento: Barbiana 65. La lezione di Don Milani. Un’anteprima mondiale di assoluta rilevanza perché si tratta della sola testimonianza audiovisiva di don Lorenzo Milani. Qui lo vediamo parlare e leggere dalla sdraio a righe sbiadite che gli fungeva da cattedra, già minato dalla leucemia (ma la malattia nel film non si percepisce) che entro due anni lo avrebbe portato alla morte. A tutti gli effetti, quindi, il suo testamento spirituale.

Alessandro D’Alessandro recupera il girato del padre Angelo, unico al tempo ad avere avuto il permesso di filmare i momenti e gli aspetti fondamentali della vita a Barbiana: la scrittura collettiva, la lettura dei giornali, i ragazzi più grandi che insegnano a quelli più piccoli, il lavoro manuale e la partecipazione alla Messa. Immagini che D’Alessandro figlio alterna con misura ed efficacia (un’altra lezione, questa, di cui tanti documentaristi o sedicenti tali dovrebbero fare tesoro) alle testimonianze rese da Adele Corradi, l’insegnante che affiancava don Lorenzo, Beniamino Deidda, ex Procuratore Generale di Firenze, che ha continuato a insegnare a Barbiana anche dopo la morte del suo fondatore, e don Luigi Ciotti. Il regista riesce così a restituirci un ritratto molto sincero e toccante di quello che a tutti gli effetti può essere considerato uno dei padri (speriamo mai dimenticato) della nostra nazione.

Don Milani era arrivato alla parrocchia di Sant’Andrea nel Mugello nel ’54, aveva trentun anni ed era stato mandato lì “in esilio” a causa del suo anticonformismo. Quando vide la povera scuola elementare del paese, abbandonata e isolata da tutto (non c’era il telefono, non c’era la luce elettrica, non c’era l’acqua corrente, non c’era neppure la strada), con cinque classi in un’aula sola, pensò a rimboccarsi le maniche e a insegnare. In pochi anni, Barbiana divenne un modello di educazione ben oltre i confini nazionali.

Undici anni dopo, D’Alessandro padre salì alla volta della piccola comunità ormai famosa, per un’inchiesta su un tema allora molto caldo, l’obiezione di coscienza, che vedeva al centro delle polemiche, spesso assai violente, proprio don Lorenzo, sotto processo con l’accusa di apologia di reato, incitamento alla diserzione e disubbidienza militare. La sua colpa era di aver pubblicato una lettera, nota come L’obbedienza non è più una virtù, indirizzata ai cappellani militari della Toscana, che giudicavano l’obiezione di coscienza “un insulto alla patria e ai suoi caduti”, “estranea al comandamento cristiano dell’amore” ed “espressione di viltà”. A loro scriveva, tra le altre cose, che alle armi di distruzione e di morte lui opponeva quelle assolutamente incruente dello sciopero e del voto. Gli strumenti del cittadino responsabile.

Lo scopo principale del suo insegnamento non era, infatti, quello di educare alla fede, come ci si potrebbe forse legittimamente aspettare (nella sua scuola – ci rivela Don Ciotti – non c’era neanche il crocifisso), ma quello di formare dei cittadini. Dei cittadini sovrani e consapevoli che non si accontentano di slogan, di informazioni di seconda e terza mano. Per questo motivo la lezione partiva sempre dalla lettura del giornale: «Saper leggere – lo sentiamo dire nel filmato – significa intendere il giornale dalla prima all’ultima pagina. O almeno, poco poco, intendere la prima pagina. Io non chiamerei alfabeta e cittadino a pieno diritto, cittadino sovrano, chi non fosse in condizione di intendere davvero la prima pagina del giornale, oppure il livello di una tribuna politica, o il livello di un comizio».

L’obiettivo della sua missione era quello di formare una coscienza critica e la via per arrivarci passa forzatamente dalla conoscenza. E poi dal dubbio. Il dubbio salutare, il dubbio più sano di ogni certezza. E qui entra in gioco l’istruzione: l’istruzione e il pensiero critico come unici strumenti di riscatto. A tal proposito, la visione di don Milani era di una modernità sconvolgente: «La scuola siede tra il passato e il futuro e deve averli presenti entrambi: i ragazzi non mettono in discussione la mia esperienza, che è più lunga, e io a mia volta non dimentico che un’esperienza più breve, più recente come la loro, ha la garanzia di una maggiore verità, perché il mondo progredisce continuamente». Il motto della sua scuola era I care, m’importa, mi sta a cuore. Era quello dei giovani americani impegnati, dai valori positivi. Era l’esatto contrario del motto fascista “Me ne frego”, come lui stesso sottolineava. E al cuore di Don Milani c’erano le persone a cui dare dignità e libertà: «Io mi considero prete soltanto per i contadini, gli operai, i comunisti – dichiarava alla telecamera – quelli che non vanno in chiesa, le persone più lontane. La mia vita la voglio dedicare soltanto a loro: agli analfabeti, a quelli che il Vangelo non sono capaci di leggerselo da soli. Il vescovo – concludeva lapidariamente – sa leggere il Vangelo: si salvi da sé».

Quella di don Lorenzo era una scuola laica che non voleva perdere nessuno per strada, era la scuola dell’inclusione, non dell’esclusione. Inclusione e inclusività: le parole chiave della scuola di oggi. Anche se sembra che abbiano perso molto della loro forza originaria. Forse perché troppo spesso sono diventate sinonimo di un buonismo falso e ipocrita. Don Milani voleva bene ai suoi ragazzi al punto da chiamarli “i miei figlioli”, era disposto a sacrificare tutto per loro, ma non a fare qualcosa contro il loro interesse. Per questo quando era ora si prendevano dei calci negli stinchi e a Marcellino, cresciuto in montagna tra i pastori e che ancora non parlava, non dava l’arancia finché non ne diceva il nome: «Forse quelle signore che ti vogliono dare l’arancia ti sembrano più buone di me – gli diceva – io l’arancia non te la dò, ma ti insegno a parlare».

Un esempio semplice semplice che contiene una grande lezione. I tempi sono cambiati, è vero, la situazione storica non è più quella degli anni Sessanta e parlare di arance e calci negli stinchi ci fa sorridere. Neanche i poveri sono più gli stessi: ci sono i migranti, i profughi e tanti altri ancora. Sempre di più. Ma la lezione di don Milani non possiamo perderla. Attualizzarla, semmai e rimetterla in gioco: «Le ragioni giuste sono quelle dei poveri – ci insegnava –. L’importante è innamorarsi lì».

Probabilmente sono queste le parole che hanno indotto papa Francesco ad andare a pregare sulla sua tomba, riconsegnandolo così in seno a una chiesa che di lui, finché era in vita, ha sempre diffidato e lo ha sempre tenuto a distanza. «Forse non riusciremo a salvare l’umanità, ma non è un buon motivo per non fare fino in fondo il nostro mestiere di maestri. E se non potremo salvare l’umanità, potremo comunque salvare la nostra anima». Con queste sue parole si chiude il film. Ma poco prima don Ciotti ci aveva ricordato come don Lorenzo Milani avesse chiesto di essere seppellito con indosso i paramenti sacri e gli scarponi da montagna. A volte accade che una sola persona racchiuda in sé la terra e il cielo.

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