Nicola Fano
Da domani a Urbino

Il sosia di Raffaello

Debutta una "farsa" scritta Michele Pagliaroni che trasporta il classico trucco della commedia degli equivoci nel mondo dell'arte: proprio nel cuore del doppia finzione, tra pittura e teatro

Un gioco a metà strada tra Eduardo Scarpetta (stile Miseria e nobiltà dove tutti si fingono qualcun altro) e Fantasmi a Roma, strepitoso film di Antonio Pietrangeli: ho letto il testo teatrale Divinissimo di Michele Pagliaroni (andrà in scena giovedì prossimo a Urbino, al Teatro Sanzio, diretto dall’autore) e ho pensato a come sia bello giocare con l’arte a il teatro. Prendete questa storia che l’autore chiama “farsa”: siamo a Roma nel 1518, Agostino Chigi vuol far dipingere la sua dimora a Raffaello Sanzio e spedisce lì il suo segretario. Il quale, però, sbaglia indirizzo (in virtù di un’indicazione errata quanto interessata) e si rivolge a Sebastiano del Piombo credendolo il Divinissimo Raffaello: sapete come vanno queste cose… Sebastiano è alla fame per via della concorrenza di Raffaello e quindi, quando scopre l’equivoco, non se la sente di rifiutare gli ottomila scudi. Si proclama ragazzo di bottega del Divinissimo, si infila in saccoccia l’anticipo e inizia a progettare gli affreschi che gli sono stati chiesti: quando Chigi li vedrà, rimarrà a bocca aperta e non si pentirà di aver pagato Sebastiano del Piombo anziché Raffaello, si dice. Ma le cose, ovviamente, andranno diversamente. Ci si metterà di mezzo anche una cortigiana innamorata…

Ebbene, siamo nel pieno di una commedia nel senso classico (e migliore) del termine: con colpi di scena, snodi comici, giochi di parole: «All’inizio avevo pensato a costruire un rapporto diretto fra questa vicenda e la Commedia dell’Arte, nella quale da sempre mi muovo – dice Michele Pagliaroni – ma poi mi sono accorto che quei riferimenti, se usati in modo troppo specifico, avrebbero finito per andare stretti al copione e allo spettacolo; così ho allargato le maglie e ho puntato di più su un intreccio classico». In effetti, se si deve attribuire una paternità ideale a questo copione, la si deve dare alla grande famiglia della comicità popolare italiana. Prendete l’equivoco tra il vero e il falso Donatello: come dicevo, ricorda quel bel film di Pietrangeli nel quale Vittorio Gassman, il fantasma di un ignoto pittore del Seicento, dipinge in una notte un affresco (che viene scambiato per un Caravaggio) perché l’antico palazzo dove vivono i fantasmi della famiglia Roviano non venga venduto… La stessa leggerezza si trova qui.

C’è poi un altro elemento interessante nello spettacolo che debutterà giovedì a Urbino prodotto da Accademia Raffaello e Centro Teatrale Universitario Cesare Questa di Urbino, in collaborazione con Comune, Università degli Studi di Urbino Carlo Bo e AMAT: è il tentativo concreto di mettere in relazione pittura e teatro. Sappiamo tutti che, quando il teatro non c’era (in quei mille anni che vanno dal bando di Giustiniano nel 535 alla rinascita del secondo Cinquecento) è stata la pittura a tessere i fili della rappresentazione, della “messinscena”. E dunque, qui, quel legame diventa vivido, «fatto di colore e sporcizia», come dice Pagliaroni: «Mi piaceva l’idea di mettere in scena le tinte, le terre, gli impasti. E allo stesso modo ho cercato di costruire il linguaggio come su una tavolozza di colori». Non a caso, proprio a un “colore” da pittore, in senso stretto, si deve lo scioglimento della commedia…

Un’occasione ghiotta, dunque, per guardare indietro e guardare avanti contemporaneamente, nel segno di un teatro che si fa gioco di prospettiva e conoscenza al tempo stesso.

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