Domenico Calcaterra
Tra apparenza e militanza

Critica senza traumi

Quale senso ha esercitare la critica letteraria partendo da una tesi da dimostrare e non sondando ipotesi di lettura nel corpo della scrittura? Qualche considerazione intorno a un critico di successo: Daniele GIglioli

Se c’è un saggista, in Italia, che si è dedicato a interrogarsi sul riverbero per così dire simbolico delle angosce attuali, senza dubbio è stato proprio Daniele Giglioli. Utilizzando come entratura privilegiata la letteratura, ha voluto scorciare il ritratto di un mondo “requisito dai mass media” (Giglioli 2011, p. 15). L’inesperienza, il trauma del senza trauma, il complesso vittimario, la misera simbolica, il sentirsi relegato in un perenne stato di minorità – sono questi i miti contemporanei attorno ai quali si è venuta di volta in volta appuntando l’attenzione del nostro negli ultimi dieci anni. Coerenza di ricerca che ha preso forma strada facendo (e senza un originario disegno unitario), come ha avuto modo di chiarire nel bilancio finale rappresentato da Stato di minorità (2015); e in questa volontà di decostruire le macchine mitologiche d’una contemporaneità malata non si può non riconoscere l’insistenza e la caparbietà del suo sforzo analitico. Lo scandaglio nell’immaginario del terrore, del trauma e della vittima, li paleserebbe, secondo Giglioli, quali sintomi di una società in cui l’agency (ossia l’azione politica) è avvertita ormai come qualcosa, se non d’impossibile, di vacuo, rintracciando proprio nel tema della “frustrazione politica” il denominatore comune di molta letteratura degli anni Duemila. In questo suo denso percorso un libro decisivo e di svolta è rappresentato da Senza trauma. Scrittura dell’estremo e narrativa del nuovo millennio (2011), per quel valore autobiografico-generazionale, per tutti coloro (come Giglioli) che hanno maturato la loro “educazione sentimentale” negli ingannevoli anni Ottanta, e per i quali il cosiddetto “trauma del senza trauma” costituirebbe la principale impasse, conclamata inadeguatezza, quasi uno scacco gnoseologico: al punto che lo stesso autore riconosce nel suo saggio “un libro retrospettivo che guarda al passato” (Accardo, 2015).

Seguito ad All’ordine del giorno è il terrore (2007), con il quale aveva criticamente profanato la mitologia del terrore (colta nei suoi nessi con la vita comune), con Senza trauma Giglioli indugia a esplorare i territori dei traumi (veri o presunti) del nostro quotidiano, praticando un saggismo dallo stile accattivante, che polverizza gli steccati disciplinari, sempre puntando dritto al bersaglio primo del suo argomentare. Ripartendo dal dato dello slittamento della nostra epoca verso una compiuta “inesperienza”, già in precedenza sondato da Antonio Scurati (La letteratura dell’inesperienza, 2006), egli riflette sul paradosso del trauma come solo paradigma di racconto in quella che definisce essere “l’epoca del trauma senza trauma […] del trauma dell’assenza di trauma” (Giglioli 2011, p. 7). La rappresentazione del non traumatico sotto il segno del trauma sarebbe testimoniata, in letteratura, da una “postura condivisa” (ibidem), un complesso di atteggiamenti che Giglioli battezza scrittura dell’estremo. Scrittura e non stile, secondo la distinzione barthesiana; e perciò da intendere come atto performativo di “solidarietà storica” (ivi, p. 13). Alla base della crisi dei rapporti tra letteratura e mondo l’autore individua la tara di un’autoreferenzialità strabordante, il già menzionato offuscarsi dei contorni tra realtà e finzione (tipica delle poetiche postmoderne), e, ovviamente, lo strapotere dei mass media nello scenario delle possibilità di rappresentazione del mondo. Ma è sempre un’artaudiana ideologia vittimaria a giustificare e legittimare per Giglioli il “trauma fantasmatico” (ivi, p. 17), la sua convocazione immaginaria. C’è sempre un vuoto di responsabilità a dar spazio al desiderio di riconoscersi come vittime innocenti. Un’emergenza socio-letteraria ravvisabile, partendo da questo comune terreno teorico, soprattutto, in due tra le forme letterarie oggi di maggior successo editoriale: il recupero della cosiddetta letteratura di genere (giallo, noir, fantascienza, romanzo storico) e la congerie di scritture ascrivibili all’autofiction. Forme che, partendo dal medesimo assunto – “la difficile rappresentabilità dell’esperienza” (ivi, p. 23) –, si pongono in rapporto di complementarità riguardo alle strategie perseguite.

Se la narrativa di genere, assegnando alla finzione il compito di svelare la realtà, ambisce a realizzare una sorta di controstoria dell’Italia contemporanea, nell’autofinzione, al contrario, l’autore si sente costretto a contaminare la sua vicenda autobiografica con omeopatiche iniezioni di finzione, riproducendo così la disorientante indistinzione già presente nella vita. Terreno comune essendo quella strategia dell’oscenità (ivi, p. 24), tesa a mettere in primo piano ciò che dovrebbe rimanere sempre e comunque occultato, nel tentativo, esibendo i segni della malattia, di produrne l’esorcizzazione, il rimedio. Inoltre, Giglioli, da subito, avverte con nettezza il lettore che il suo è tutt’altro gioco: “chi è alla ricerca di un canone, di una classifica o di una tabellina, è pregato di lasciare immediatamente queste pagine” (ivi, p. 12). Come applicando un filtro passa basso all’ampio materiale narrativo chiamato in causa per verificare l’ipotesi teorica avanzata, istituisce analogie e differenze tra i due filoni, ne coglie i difetti costitutivi, trattando autori e opere alla stregua di documenti dai quali spremere un concentrato di universali sociologici, buoni a tinteggiare il quadro generale d’una narrativa contemporanea italiana dominata dal basso continuo di un “senso di contingenza” (ivi, p. 57), una mancanza di necessità che sgomenta. La sua causa primaria risiederebbe nell’incapacità politica di denunciare la nostra inappartenenza a un Reale coincidente con il vuoto da cui prenderebbe corpo la scrittura dell’estremo. L’approccio si è rivelato sempre analogo: non l’interesse per la realtà effettuale in sé, ma il soffermarsi sul suo “riflesso in immagine” (Giglioli 2007, p. 35).

daniele giglioliIn effetti, possiamo parlare di un metodo ben strutturato, perfezionato da Giglioli nelle sue indagini tematiche: individuazione del fenomeno, profilo della sintomaticità dello stesso, ricerca nei testi letterari (volontariamente optando per un approccio analogico più che per un’esaustività d’analisi) di quanto riscontrato e sviscerato sul piano delle teorie filosofico-sociologiche da cui l’ipotesi di lavoro e la costruzione del teorema critico hanno preso avvio. Epperò viene spontaneo chiedersi: a voler definire il quadro della narrativa italiana degli anni Duemila, quale concreta possibilità di orientamento può offrire al lettore comune, rispetto al peso letterario e al senso profondo – al di fuori della portata, sul piano del rispecchiamento storico, che da sì dotte argomentazioni se ne può ricavare –, il passare in rassegna dei testi soltanto a scopo eminentemente dimostrativo? In quella discrepanza, chiamata in causa anche da Franco Cordelli (2011), tra le convincenti argomentazioni teoriche e i “romanzi scritti male (…) approssimativi, brutti” messi in rassegna per l’occasione?

Nella frenesia di dimostrare il teorema di partenza, di congiungere meccanicamente trame argomentative, il saggio di Giglioli lascia perplessi soprattutto per il partito preso della preclusiva negazione di cittadinanza a ogni possibile discorso sul canone e il giudizio di valore; e per l’azzeramento delle specifiche singolarità letterarie. Non basta, a convincerci, la Postilla finale (excusatio non petita) con la quale gioca d’anticipo cercando di neutralizzare le intuite obiezioni e riserve sul suo lavoro, mettendo in campo le ragioni di una critica sociologica che, sulla scorta di Žižek (2009), si basi sulla verità clinica del sintomo (“dove il feticcio nasconde, il sintomo rivela”, ivi, p. 104); né ci si può accontentare di un’idea del tutto depotenziata e riduttiva di critica intesa come “collaudo” (Giglioli riprende la formula definita da Tiziano Scarpa nel suo Cos’è questo fracasso?, 2000), rivendicando un uso interpretativo al di fuori della letterarietà: senza dubbio può essere utile “scorniciare” le opere dal loro asettico contesto per utilizzarle come grimaldello d’accesso a una comprensione altra della realtà, ma ciò non deve mai equivalere a una netta obliterazione della loro precipua dimensione. Ben venga una critica letteraria che si giovi degli apporti teorici forniti dalle scienze umane, ma a patto che ciò non implichi uno snaturarsi della sua funzione. Una volta stabilito che quella attuale è una letteratura del senza-trauma, caratterizzata da una scrittura che si è voluta definire dell’estremo, si è ancora detto poco o nulla: se ci si ferma al dato nudo e crudo, si è solo compiuto un deliberato atto di de-vitalizzazione ai danni di autori e opere, relegati entro un bidimensionale orizzonte livellatore. Ecco perché il saggio potrebbe valere come un preliminare: per entrare meglio nel dettaglio di un’aggiornata cartografia critica del romanzo italiano contemporaneo, non si può rinunciare a un più circostanziato giudizio di valore.

Paradossalmente, il metodo dell’inchiesta sociologica assomiglia a un forzoso deragliare dalla realtà: ché farla coincidere con una teoresi ipertrofica, anche solo per provare a scimmiottarne la complessità, equivale quasi a rinunciare in partenza a comprenderla. Quell’obbedire a un “a priori sociologico” (che più che a sondare un’ipotesi, si affanna a dimostrare una tesi), – rimprovero nel libro rivolto al Walter Siti di Troppi paradisi (2006) –, non vale forse anche per il saggista Giglioli che un analogo risvolto sociologico si affanna a ricercare in testi diseguali per valore? E lo stesso Giglioli sembra fornirci il paragone più calzante per descrivere l’eleganza frigida dei suoi saggi a chiave, laddove in Senza trauma, a proposito delle narrazioni di genere, scrive che esse somigliano a “una sorta di manichino da rivestire, una serie di punti da congiungere, uno spazio da annerire perché emerga finalmente una figura visibile” (ivi, p. 39): ecco, la stessa impressione di una scrittura saggistica agghindata e telecomandata (mi si passi il termine) si riceve, per ampi tratti, anche nel leggere il suo teorema sociologico-letterario, per cui la sola voce davvero riconoscibile rimane quella dell’autore, impegnato (come ha voluto rilevare forse con un eccesso di acredine recensendo il libro Gilda Policastro) in un cavilloso “esercizio di scrittura”.

Un discorso che rimane sostanzialmente socio-antropologico, a livello di critica della cultura (Onofri), che nel programmatico sacrificio del giudizio di valore e del canone ne fa “implicitamente sentire l’ineludibilità” (così la Bertoni), è vera critica letteraria? Sembrerebbe di sì. Tuttavia potremmo parlare per il saggio di Giglioli, parafrasandone il titolo, di ‘trauma del senza critica’. L’andare a caccia del sintomo “scorniciando” alcune opere appartenenti ai generi di più larga fortuna editoriale e di pubblico degli ultimi anni, li fa davvero entrare in frizione con il mondo, con la vita? Con ciò che davvero raccontano e che più ci riguarda? E ancora: una critica intesa come “collaudo” quanto nega, nei fatti, al rapporto del lettore con il testo, a quella che potremmo definire la ricezione personale che, al contrario, viene in questo caso ridotta a un limbo azzerante che tutto e tutti pone sullo stesso piano? Non è questo il vero ‘trauma del senza critica’, in maniera contraddittoria messo in scena con questa prova d’arguzia saggistica (e suo malgrado) da Daniele Giglioli? Quel Giglioli che, lo si rammenti, è critico di raffinata militanza quando la esercita dalle pagine culturali delle testate con le quali collabora, e che qui altrimenti sottopone, riducendo l’opera letteraria a mero sintomo, a una dilagante falsificazione (rimasta perciò inevasa) quella soggettiva petizione di vita cui ogni opera letteraria degna di questo nome dovrebbe rimandare? Gli esempi di scritture dell’estremo passate in rassegna, spogliate del loro carattere di feticci e fatte assurgere a dignità di sintomi che rivelano un vuoto di significato e di adeguata rappresentazione del senso, recano con sé l’esito ultimo di un non meno indifferenziato vuoto: il suo ricostituirsi, per questa via, in feticcio (che messo alla porta finisce per rientrare, secondo questo modus operandi, dalla finestra).

Il più macroscopico limite di una siffatta critica sintomatica praticata da Giglioli risiede, come ha saputo con lucidità puntualizzare Gabriele Pedullà, proprio nel fatto che “il critico sintomatico va a pescare con le bombe”; e il saggio diviene, in sé, sintomatico di un simile scostamento. C’è una definizione di ciò in cui consterebbe il lavoro del critico coniata da Giglioli in un suo libro successivo, Critica della vittima (Nottetempo, 2014), che sembra descrivere bene il tallone d’Achille delle sue prospezioni da laboratorio, in camice e stetoscopio: “il critico interpreta sintomi, ma non è un medico che diagnostica né un chirugo che amputa: è una cavia che riflette sopra quanto ha sperimentato su di sé. Brillante ma sterile è la critica che non conosce empatia” (Critica della vittima, cit. p. 85). Definizione del lavoro critico certo condivisibile, ma che sembra denunciare, ancora una volta quasi inconsapevolmente, ciò che meno si avverte nel leggere questo pur elegantissimo saggio: l’empatia, l’autobiografia del critico, la messa a sistema, il soggettivissimo giudizio di valore.

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