Pasquale Di Palmo
La voce del poeta: Umberto Piersanti

Dei luoghi persi

Natura, storia e mito intrecciati tra cronaca e memoria. E sullo sfondo le Cesane si offrono come simbolo dell’intero universo. Nei versi del poeta marchigiano il passato è sospeso nel presente, tra un “tempo che precede” e un “altrove assoluto”

Il mondo poetico di Umberto Piersanti è dominato da una serie di figure mitiche che ricorrono insistentemente «tra cronaca e memoria» e si stagliano sullo sfondo della natura lussureggiante delle Cesane, in un luogo ricco di vegetazione (favagelli, viole, tulipani, giunchiglie, erba spagna), dove è ancora possibile rievocare il Natale o incontrare lo sprovinglo, sorta di diavolo nero a forma di cane. È come se l’infanzia e l’adolescenza dell’autore marchigiano si fossero cristallizzate in un passato sospeso nel presente, “nel tempo che precede”, contrapponendosi a quelle di Jacopo, il figlio autistico descritto in pagine di toccante autenticità: «per te ragazzo mio / che hai dentro il marmo / avvolte membra e mente, / bacio è una cosa umida, / troppo, troppo avvolgente, / tu che le vesti non sopporti».

cop-piersantiPiersanti ha pubblicato numerose sillogi poetiche, tra le quali ricordiamo quelle apparse nella collana “bianca” di Einaudi: I luoghi persi (1994), Nel tempo che precede (2002), L’albero delle nebbie (2008). L’ultima sua raccolta, edita da Marcos y Marcos nel 2015, si intitola Nel folto dei sentieri (240 pagine,  17 euro) e si configura come la naturale prosecuzione di un percorso poetico contrassegnato da una natura pullulante di erbe e piante («sempre mi porto dentro / l’erbe e i fiori») evocate con nomi sempre precisi, entro la quale vengono rievocate vicende storiche, mitologiche o ricavate da leggende popolari che suonano come un monito al nostro presente.

L’universo mitico delle Cesane è alla base della sua poetica, con continui riferimenti a un mondo mitico perduto.
Le Cesane sono una lunga serie di colline a forma di altipiano che corre a sud-est da Urbino fino a Fossombrone. La casa di mia nonna era in un fosso isolato e impervio. Da bambino scendevo spesso in questa casa. Lì c’era il mio bisnonno Madio che mi raccontava dello sprovinglo, il diavolo-cane nero che saliva nei birocci e li bloccava in mezzo alle strade, oppure nella notte premeva sullo stomaco di chi dormiva infliggendogli forti dolori. Lì mia nonna incontrava i folletti dentro le fonti e lì ho pascolato le pecore con i miei cugini. Certo, ero un bambino strano, leggevo già gli antichi poemi e mi rapportavo a questo mondo non solo attraverso l’esperienza vissuta, ma anche attraverso le pagine dei libri. Le Cesane nella mia memoria sono divenute una terra mitica che sconfina nella galassia, un microcosmo capace di rendere sia in un modo diretto che attraverso una realtà simbolica il senso dell’intero universo.

Nei suoi testi lei a volte inserisce termini dell’idioma locale ormai desueti. Ce ne può parlare?
Non sono poi così numerosi i termini specificatamente dialettali e quelli appartenenti a una parlata dell’appennino centrale, ma precisi e densi di significato. Si incontrano con una tradizione classica anche greco-latina che mi ha sempre molto affascinato.

L’ultima sua raccolta, Nel folto dei sentieri, è una sorta di coinvolgente immersione nella natura delle zone in cui vice, caratterizzata dalla precisione con la quale nomina piante e animali. Com’è maturata l’idea di questo libro?
Maria Luisa Spaziani soleva spesso raccontare un aneddoto: stava passeggiando con Eugenio Montale quando ha visto un folto ceppo di sambuchi. «Ecco i tuoi sambuchi!». «Perché sono sambuchi?» ha risposto il poeta. «Ma tu ne hai parlato nei tuoi versi». «Sì, perché mi piaceva il suono della parola». Io non riuscirei mai a citare una pianta che non conosco, il rapporto tra “le cose” e “i nomi” è fondamentale nella mia scrittura. Dunque conoscere i nomi dei fiori e degli arbusti significa per me rappresentarli nella loro essenza: non c’è nessuna volontà di sfoggiare una preparazione di tipo botanico. Nel folto dei sentieri, rispetto ai libri precedenti, è caratterizzato da un “tempo nuovo” non più ignorato ma, talora, anche dolorosamente affrontato. A mio parere è questo l’elemento di fondo che distingue Nel folto dei sentieri dalle altre raccolte. Il tutto è dovuto, forse, allo scorrere del tempo che, prima o dopo, ti trascina dentro il presente.

Una delle figure ricorrenti dei suoi libri è quella di suo figlio Jacopo, affetto da autismo, che «abita una contrada / senza erbe e fiori». Ci sono al riguardo alcune liriche molto toccanti sul particolare rapporto che avete instaurato.
Jacopo è una figura fondamentale fin dall’inizio, anche prima dei suoi quattro anni e mezzo che hanno visto insorgere la sua malattia. Per molto tempo ho tentato di tradurlo in termini mitici, accostandolo alle figure arcaiche del mio pantheon familiare, come il mio bisnonno Madio e la mia nonna Fenisa. Dentro l’acqua era uno strano elfo inconoscibile e distante, le cavallette facevano ala al suo passaggio. Ora, però, vivo con Jacopo quasi tutti i giorni e la realtà quotidiana è diventata sempre più forte e più drammatica. Jacopo è un giovane uomo di trent’anni che conosce gli sbalzi e gli umori di una tra le malattie più inquietanti e più inspiegabili. Allontanarlo nello spazio del mito è un’impresa sempre più ardua, anche se talora tentata.

Oltre che poeta lei è anche narratore. Può parlarci di questa sua attività?
Se voglio raccontare la battaglia El-Alamein mi è difficile farlo con i versi: sì, posso fare degli accenni, ma io la voglio raccontare, magari nelle sue varie fasi. Per fare questo devo scegliere la forma narrativa. Poesia e narrativa sono due registri assolutamente diversi che rispondono a sguardi ed esigenze differenti. C’è però qualcosa che, nel mio caso, accomuna poesia e narrazione. I miei protagonisti hanno uno sguardo lirico sul «reale». Il tenente Marco de L’estate dell’altro millennio mentre attraversa i boschi del Montenegro per inseguire i partigiani titini, si distrae a guardare un falco che vola o un cervo che appare in cima a un dirupo. Essere un poeta è qualcosa che non ti abbandona mai.

Rispetto al tempo dei suoi esordi come pensa si sia evoluta la scena poetica italiana?
Nel 1967 all’epoca del mio primo libro La breve stagione la scena italiana era dominata assolutamente dall’avanguardia, parafrasando Brecht parlare di alberi era quasi un delitto. Ma io parlavo di alberi e usavo parole antiche. Oggi gli indirizzi della poesia italiana sono i più diversi e le singole personalità contano molto di più. Mi sembra, però, che nel complesso la poesia abbia acquistato, se è possibile, ancora un minor peso. Questa è l’epoca dei thriller, degli horror, dei fantasy e del sesso al femminile. Anche il romanzo mi sembra un genere molto decaduto dai tempi di Calvino, Moravia, Tomasi di Lampedusa.

Lei ha frequentato autori d’eccezione tra cui Paolo Volponi e Carlo Bo. Può ricordarci le loro figure?
Paolo Volponi sanguigno e aspro, ma tenero nel fondo, camminava per Urbino, se la prendeva con tutto ciò che non andava: ma non era Leopardi, non osservava la vita di Urbino dalla finestra, gli appartenevano le piazze e le osterie. La passione civile, non senza qualche punta faziosa, lo coinvolgeva tanto quanto la scrittura.
Carlo Bo era naturalmente imponente nel fisico e nel suo modo di porsi. Davanti a lui tutti eravamo un po’ degli scolaretti. Questa sua autorevolezza non aveva bisogno di nessun orpello esteriore: entrare nel suo studio era facile.
Rosario Assunto sapeva cogliere il paesaggio come nessun altro e nessuno mi ha raccontato Urbino sospesa tra la perfezione toscana e la fantasia orientale dei suoi torricini, come lui.

Cosa sta preparando attualmente?
Un libro di racconti che nascono dalla conoscenza di alcune strutture che ospitano il disagio psichico e sociale. Qualcosa che era finora molto lontano dal mio mondo e che i casi della vita mi hanno fatto incontrare.

Può commentare la poesia inedita presentata?
La memoria è sempre stata un elemento centrale della mia poesia, l’unica possibilità concessa all’illusione di sfuggire alla corsa dei giorni. In questa poesia si susseguono alcune figure femminili che risalgono sempre più indietro nel tempo: negli anni della seconda guerra mondiale mentre l’ottava armata britannica risale dalla costa verso Urbino, un bambino osserva la dama più luminosa e lontana seduta nel terrazzo, la prima figura femminile che lo affascini anche in un senso seppur latamente erotico. Rimane l’angoscia del tempo che scorre, l’impossibilità di rientrare dentro quel mondo che nessuna memoria può oltrepassare, separato da un muro tanto impercettibile quanto invalicabile. Il passato è un altrove assoluto.

***

umberto-piersanti 

Il passato è una terra remota
a Giulia

no, non tra rossi papaveri

e fiordalisi come l’antica

col velo dentro il quadro,

ma alta, sugli stivali

nel terrazzo fuori

e non mi guardi,

poi sul gran verde stesa

e accesi gli occhi

così azzurri e persi,

 

sei la ninfa riversa

nell’attesa

e la tua bionda carne

m’invade e piega

 

passano dinanzi agli occhi

le figure, in altri tempi

e luoghi lontani

e persi, tu sotto la cascata

ti infradici i capelli

neri e sciolti

e mi sovrasti

chino sulla roccia

 

non conosci quei lampi,

non sai i suoni,

dicono che i soldati

salgono su lenti

dalla marina,

lei siede alla ringhiera

contro i bei vetri,

tu non ricordi il volto,

non sai la veste,

solo quelle ginocchia luminose

che appena intravedi

fra le trine

 

quando la casa cambi

o la dimora,

salgono le memorie

fitte alla gola

e se tendi la mano

quasi le tocchi,

ma il muro che le cinge

è d’aria o vetro,

nessuna forza

lo può oltrepassare

 

il passato è una terra remota

magari non esiste,

non sai dove

Umberto Piersanti
dicembre 2015

 

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