Vincenzo Nuzzo
Una domenica mattina fuori dal folklore

Napoli senza vicoli

Edifici Belle Èpoque, casermoni di tufo giallo senza intonaco e senza tempo, e orripilanti palazzoni multicolori anni '60-'70. Ecco la Napoli di sempre: una cartolina a rovescio

Napoli, domenica mattina dell’undici di settembre. Via Pier delle Vigne. No, falso! Non può essere. Il nome è del tutto ingannevole, perché in realtà siamo nel quartiere San Carlo all’Arena dietro Piazza Carlo III e non lontani da Piazza Ottocalli. La più vetero-Napoli mai possibile. Dunque, più Napoli e più antica questa non potrebbe essere. Più o meno da queste parti deve aggirarsi ancora il fantasma del conte Tria, ex sposo della povera, generosa e sfortunata Eleonora Pimentel Fonseca. Colui che le fece assaggiare per primo la sguaiatezza violenta e cafona dei nobili partenopei. Lasciamo stare se borbonici o no. Questo era l’acconto. Il saldo sarebbe poi venuto quando la appesero facendola penzolare in gonna e senza mutande.

Oggi in questa Napoli siamo nel pieno dello squallore desolante di una domenica settembrina.

Di quelle che la notte prima è piovuto, e così i basoli sono neri proprio come la pelle viscida del stesso pesce venduto dai «pisciaiuoli». La domenica aperti ad ogni angolo e con merce a profusione, decisi a saziare voglie di mare a più non posso. Pisciaiuoli, pozzanghere e «fieto» di fogna. A Napoli quando piove è un guaio! Gli ingredienti della cartolina in negativo qui ci sono tutti. Ed i chiattilli posillipini non mi vengano a dire che questa non è Napoli. Perché questa è invece molto ma molto più grande e vera dell’altra, e peraltro ben più antica, o meglio ben più inamovibile. Nel senso, davvero, di una certa forma di confortante eternità. Il resto è invece solo transeunte e superflua superficie, vano divenire, «fessaria ‘e cafè», teatro. O, come dicono i portoghesi, «è só para inglês vêr» (solo per far vedere agli inglesi, cioè per farli fessi). Il fatto è però che noi napoletani, nel fare in tal modo i guitti, facciamo fessi solo noi stessi. Perché la città che davvero dovrebbe contare è proprio quella che non esiste e né mai esisterà.

Perché coloro che invece costituiscono il corpo della Napoli che sempre-resiste (i lazzari per genetica) sono quelli che se ne strafottono di tutto e di tutti: – degli ingenui riformatori illuministi o anche rivoluzionari e benintenzionati sociologi, di quelli che vorrebbero educarli o che vorrebbero metterli alla frusta, di quelli che li arrestano (e poi li rilasciano), di quelli che li amano, di quelli che odiano e pure di quelli che se ne fottono di loro. Tutto li lascia indifferenti. Perché loro sono napoletani, mentre nessun’altro al mondo lo è. Napoli è sempre restata sé stessa nel profondo nonostante tutto. Lei è quella che vuole esattamente restare così com’è. Nemmeno il cambiare davvero la cambia.

Se ne può avere un saggio qui. Banalmente e per caso. Tra queste strade che non sono nemmeno i classici vicoli. Edifici bellepoque, casermoni di tufo giallo senza intonaco e senza tempo, ed orripilanti palazzoni multicolori anni 60-70. Ed eccola qua la Napoli di sempre in questa mattina domenicale settembrina con i basoli neri di pioggia ed il cielo bigio. Essa si presenta a voi nella discussione calcistica davanti al bar di Via Pier delle Vigne. Più classico non si può! E ci sono proprio loro, Don Gennaro, Don Pasquale e Don Gaetano. I tipi tipici, inamovibili ed eterni. Mentre intorno si aggirano invece i tipi non tipici, questi solo transeunti, e cioè i corrucciati quanto superflui colossi scimmieschi alla Savastano. Ma questo è sbagliato, perché invece il napoletano ride sempre. Pure quando si incazza. E questi tre si incazzano azzuffandosi intorno alla slealtà di Higuain, tema costante ormai da mesi. Mentre il barista, anche lui tipico, intanto se la ride con la saggezza pacata e cinica del filosofo-proletario partenopeo, decisamente superiore alla massa.

Oè! Sono davvero ancora bassi i napoletani inamovibili. Nani. Uno magrissimo con la faccia angolosa e le enormi orecchie a sventola da maschera apotropaica. L’altro in tenuta official da pensionato più che dignitoso, fluenti pantaloni gabardine, scarpino e camicia listata color prugna. E faccia impenetrabile da navigato ex-viveur. L’altro ancora paffuto e rotondo, il «vuttazziello». Questi tipi sono l’humus partenopeo, quello uguale a sé stesso da millenni.

Ebbene tutto questo è bellissimo, esaltante, e carezzevole. Anche in questa domenica mattina bigia, umida e desolante. Così, dopo aver sghignazzato con il barista sul così vano sprecare il fiato dei tifosi incazzati, e dopo aver tracannato pure il caffè tutto d’un fiato, non si può non uscire da lì con un sorriso di nuovo tutto nuovo. Che ti accompagna e ti culla almeno per po’. Che bello stare a Napoli! Sebbene nulla sia accaduto, nulla sia cambiato e mai cambierà. Né le ragioni dell’amore né quelle dell’odio né quelle dell’indifferenza. Ma soprattutto quella vaga e costante minaccia che a Napoli sempre ti accompagna. Insidiosamente inquietante pur nella seduzione. E che in queste domeniche esala fin al tuo naso dai basoli neri che intanto ti sogguardano torvi. Cosa potrà accadere ora? Mi sento bene per un po’, ma poi perché? Cosa mi sta dando Napoli? Cos’è Napoli? Che significa parlarne? Forse assolutamente nulla, come dice La Capria.

napoli-bianco-e-neroUna cosa però c’è, e quella è sicura. Napoli può essere anche definita un film, e può anche esserlo per davvero diventata. Un film atroce. Ma più fondamentalmente ancora, e soprattutto più eternamente ancora, essa è un vero e proprio libro di onto-metafisica. Materia infinita di meditazione sempre. Nel male e nel bene.

C’è da imparare qui. Ogni giorno. Ma cosa? Nulla di definito, nulla di utile, nulla di comunicabile. Qualcosa che riguarda sempre solo te stesso. Il perché sei nato qui e te ne stai qui, mentre ormai tutti se ne scappano.

Pare che il delfico «conosci te stesso» viaggiasse dalla Focide e si fermasse qui per trapiantarsi tra le ombre grottesche e lascive dei riti orfico-pitagorici. Negli antri sibillini e nelle caverne marine. Tra i pesci, lungo i fondali eruttivi ormai solo sudici. Lungo le vene ancora multi-odoranti della città. E poi sfociando infine nei sentieri fangosi di quelle così grasse campagne, verzute e tabacco. Un tempo ex-paludi tanto dimesse quanto felici e nutritive, ed oggi invece solo un rigurgitante e fetido letamaio a cielo aperto.

Quanto amo e quanto odio questa terra! Non ve ne andate tutti per favore! Restate! Sappiate che, pronunciando quella frase ormai di prammatica («Io lì non ci torno più!»), non fate altro che proclamare il vostro stesso fallimento. Non il vostro riscatto

Siamo solo noi che abbiamo fatto di questa terra ciò che essa non era e forse nemmeno ora davvero è. Dunque conosciamo noi stessi!

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