Gianni Cerasuolo
L'epopea di un uomo scomodo

La farfalla Ali

«Io non ho niente contro questi vietcong e nessun vietcong mi ha mai chiamato negro»: il mito di Muhammad Ali è metà politico e metà sportivo. «Non sono tenuto ad essere quello che volete farmi essere»: per questo decise di essere un campione

Adesso che, dopo la sua morte, anche Donald Trump dice di lui che «era un bravo ragazzo e un grande campione», viene in mente per contrasto di quando Muhammad Ali, dopo il rifiuto di arruolarsi nell’esercito statunitense e di andare a combattere in Vietnam, era denigrato e offeso dagli americani e considerato dal Dipartimento di Stato «un possibile rischio per la sicurezza». E nei combattimenti sul ring veniva accolto dai buuu del pubblico. Ma Ali è riuscito anche a sovvertire queste cose e diventare una icona mondiale, un culto di massa.

«Io non ho niente contro questi vietcong e nessun vietcong mi ha mai chiamato negro»: queste parole misero fine al primo Ali, al Cassius Clay folgorante del periodo giovanile dal 1960 al 1967, rivelatosi ai Giochi di Roma, gli anni in cui «svolazzava come una farfalla e pungeva come un’ape». Il suo manager Angelo Dundee sottolineava sempre che «in fondo, non avevamo mai visto il miglior Ali» fermato per la sua ribellione, per essere un obiettore di coscienza, un combattente disarmato.

cassius clay1Ali, morto a 74 anni, aveva aderito alla Nazione dell’Islam e si rifiutava di indossare l’uniforme militare. La corte federale di Houston in Texas lo condannò a cinque anni di prigione. Non fece nemmeno un giorno di carcere ma il Dipartimento di Stato gli tolse il passaporto in modo che non potesse salire su un ring all’estero. Le commissioni pugilistiche gli vietarono di boxare. Fu allora che nacque il mito di Ali, il difensore dei diritti civili, il campione di più grande spessore del Novecento. Una dimensione culturale e politica rivoluzionaria. «Ero determinato a essere il negro che i bianchi non avevano voluto» diceva. Oppure: «Non sono tenuto ad essere quello che volete farmi essere». E lui non voleva essere il negro dell’uomo bianco, un Floyd Patterson, ad esempio: «Lo stendo a terra tutt’intero. E si deciderà a fare il nero», tuonò prima di incontrarlo. Ma allo stesso modo trattò Joe Frazier, «lui è un gorilla», andava dicendo dell’avversario che piaceva ai bianchi.

Ali, il cui nonno era stato uno schiavo, raccontava che era salito sul ring per far pagare ai bianchi la morte di Emmett Till, un ragazzo afroamericano seviziato e ucciso in una cittadina del Mississippi per motivi razziali. Di certo l’avvio della sua carriera agonista coincise con l’intervento statunitense in Vietnam e la nascita dei movimenti neri fino ad arrivare alla morte di Martin Luther King nel ’68. C’è una raccolta di saggi di Joyce Carol Oates, Sulla boxe, edito da 66th and 2nd nel 2015, in cui l’autrice, a proposito di Ali e del problema razziale, scrive: «Facendo della razza una questione tanto preminente nel periodo a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, Ali provocò, com’era prevedibile, una reazione ostile da parte dell’establishment, compreso il governo federale. Anche se gli era stato proibito di lasciare gli Stati Uniti, sarebbe stato un esiliato in patria: come musulmano nero sarebbe stato “separato” dalla maggioranza bianca. In effetti, tra le celebrità dell’America del Novecento, solo Charlie Chaplin e Paul Robeson, perseguitati negli anni Cinquanta da politici di destra per i loro ideali “comunisti”, hanno avuto una sorte analoga… Considerando la prolungata violenza degli anni Sessanta, con gli assassini di personaggi pubblici, le frequenti uccisioni e i pestaggi di attivisti per i diritti civili, a ripensarci sembra un miracolo che Cassius Clay-Muhammad Ali, quello che si definiva “il negro che gli uomini bianchi non avevano avuto”, non sia stato bersaglio di violenze».

cassius clay2Violenti furono anche i combattimenti con Sonny Liston, con Joe Frazier e con George Foreman per la corona dei massimi. Che lui si prese e perse varie volte. Certamente i colpi ricevuti lasciarono tracce sul suo fisico, anche a causa di una lunga carriera. Fino a renderlo vittima della malattia di Parkinson che non lo fiaccò al punto che lo vedemmo incerto, commovente, straordinario ultimo tedoforo nel ’96 ad Atlanta, il braccio sinistro che tremava, il destro che teneva alta la fiaccola con uno sforzo terribile (e una fiamma che non voleva sapere di ardere anche perché lo scenografo si era inventato una macchinosa accensione del tripode).

Un match infinito, il suo. Perché dopo l’esilio di tre anni e mezzo dal quadrato, Ali ritornò per la seconda parte della sua storia negli anni che vanno dal 1971 al 1978, quelli dei grandi combattimenti dove si vide un pugile più accorto e lento, meno agile, ma dotato sempre di una tecnica ineguagliabile. Anche incassando cazzotti. Nel saggio sopra citato si legge una sua dichiarazione del 1975: «Io non mi alleno come gli altri pugili. Per esempio, lascio che i miei sparring partner ci vadano giù duro con me circa l’ottanta per cento del tempo. Io sto in difesa e prendo un paio di colpi alla testa e al corpo, che è un bene: devi allenare il corpo e il cervello a incassare quei colpi, perché ti capiterà di essere picchiato malamente un paio di volte a incontro… Invece io con i miei sparring partner non ci vado giù duro… Quando uno affronta tutti gli incontri che sto affrontando io ultimamente, bisognerebbe tirare di boxe e darsi da fare ogni giorno, ma io non posso ballare e muovermi ogni giorno come dovrei, perché il mio corpo non me lo permette. Così devo limitarmi». Non danzava più, ma imparò a incassare e utilizzare la tattica sul quadrato. Con Frazier (’71, ’74 e ’75) e con Foreman (’74). «A pensare a quegli incontri sfiancanti – ha scritto Carol Oates – da cui anche i vincitori escono irrevocabilmente cambiati, vengono in mente le vette pericolose e catartiche toccate dalla tragedia greca e shakespeariana». Dopo il terribile e sanguinoso match con Frazier nel ’75, Ali parlò di quell’esperienza come «la cosa più vicina alla morte». Avvenimenti che attiravano stampa, spettatori, media, giornalisti, scrittori. «Perché, anche se non più giovane Ali continuava ad essere un meta-atleta che concepiva le sue apparizioni in pubblico come teatro, non solo, o non completamente, come sport».

cassius clay4In quegli anni «Ali aveva qualcosa dell’imbroglione, e il suo gioco consiste nel voler farci credere alla sua indistruttibilità, mentre forse nemmeno lui ci crede, o può crederci, senza qualche riserva…». Fino a farci pensare che lui è quello buono e l’altro, Foreman ad esempio, è il cattivo.

Furono combattimenti durissimi, li vinse e poté continuare a dire: «Sono il più grande». In cambio di questa grandezza «aveva dato la sua salute, come si sarebbe visto in seguito, ma forse sul momento gli sarebbe sembrato che uno scambio del genere ne valesse la pena». Andò avanti, match, rivincite, botte, fino a Larry Holmes, lo sparring partner che lo sconfisse ai punti, a trentotto anni. Non finì nemmeno lì perché l’epilogo, brutto, triste, non degno di tutto quello che c’era stato prima, avvenne alle Bahamas, contro un Signor Nessuno chiamato Trevor Berbick. Era il 1981. «Pochi campioni se ne sono andati in maniera più penosa di Muhammad Ali», scrisse un giornalista sportivo americano.

Lui gli avrebbe risposto così: «La boxe non significava niente. Non aveva nessuna importanza. La boxe era solo un mezzo per farmi conoscere al mondo».

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