Loretto Rafanelli
“La piuma di Simorgh” di Roberto Mussapi

L’origine e il bagliore

Nella nuova raccolta, il poeta ritesse il filo del nostro labirintico cammino e del nostro sostare nel mondo per accedere alla conoscenza che porta verso la luce. Lo fa rinarrando miti, riti, fiabe, storie e penetrando nel loro segreto

Ricercare in una poesia o in qualche verso il senso di un libro è forse un esercizio approssimativo, soprattutto se l’autore è complesso nella sua espressione creativa. Eppure c’è una poesia nella recente raccolta di Roberto Mussapi, La piuma di Simorgh (Mondadori), che inoltra il lettore nello spazio della sua visione poetica: «Appartengo alla Genesi, ne custodisco/ il primo vagito, lo sgomento dell’alba/ l’angoscia del tramonto e il suo miracolante/ stupore di orizzonte/…/ La genesi avvenne nel principio e persevera./ Aiutaci a perpetuarla, riviverla vera e santa,/ risveglia il principio in questo oscuro presente». Qui, penso, troviamo le tracce significative della ricerca teorica e artistica del poeta, il suo scavare nella pietra del tempo e nella condizione umana. Qui c’è l’idea di una epifanica rinascita dell’essere, c’è il risalire all’origine del bagliore e dell’ombra, il battito del respiro affannato dell’uomo e del suo volgersi a una clemenza suprema, c’è lo svelamento dell’inconoscibile, per quanto il poeta sappia che esiste una soglia che non si può superare.

Mussapi contempla scene e figure mirabili, che pone come esemplari nello spazio del suo dire, come nel caso della tuffatrice, che esitante a gettarsi nell’acqua, o forse meglio nella voragine di un abisso, sospira: «Ma io volevo penetrare l’impenetrabile,/ essere come ero stata nella mia origine», perché la tesa direzione che il poeta indica è uno slancio verso la luce, verso quel lume che sta oltre la parabola di ogni discorso e che egli sente nel proprio cammino come una meta da tentare, come una conoscenza, anche minima, da acquisire.

MussapiÈ delicato e composto il dettato di Mussapi, estraneo alla dolente ostentazione del nulla o alla composizione di una ferita che genera continuo sangue, come è in certa poesia. È piuttosto un susseguirsi di tappe tese emotivamente alla cura della parola segreta, ricco di sorprendenti incanti e approcci inusitati, di variegati approdi, di visionari squarci, che inglobano pure la revisione di fiabe e poemi antichi. Mussapi è l’autore del perenne, accogliente e, allo stesso tempo, periglioso («vi furono viaggi in cui mi persi,/ dimenticando il mio nome, la meta del viaggio/ e da dove ero partito, e per che cosa») viaggio verso la conoscenza delle antiche e moderne ‘vie della seta’, cioè quei cammini perduti dall’opaco gorgo delle nostre fragili esistenze, e ci riporta la storia dell’uomo e dei luoghi con il fragore, il nitore e la fibrillazione che nessuno storico ci può consegnare. Come il viaggio per Xanadu, la mitica città a cui giunge Marco Polo «la meta che nessuna nebbia, nessun piovasco, nessuna tristezza crepuscolare urbana può cancellare dall’anima in cui è impressa». Perché, semplicemente, egli si colloca esattamente nei giorni della storia, nel centro di quelle vicende, nel fisico sostare in quei suoli. E questo vivere nel tempo, nel corso degli eventi, mi pare sorprendente e unico.

Ma Mussapi se è esattamente nel passato, per conoscerlo e seguirne le miserie e i bagliori, per giungere al nodo delle verità perdute, è poi esattamente posizionato nel centro di tante città o marine del nostro attuale mondo o, ancora, ad esempio, nella barca dei migranti in disperata fuga e persi nel profondo mare, come dice nella bellissima poesia dedicata al Nobel, Yole Soyinka. O è, con gli occhi sgranati della memoria, «nei fatti», con le persone care scomparse (c’è la storia di suo padre «e del mare, e della beatitudine/ e delle gallerie in autostrada e dei bagni a Celle Ligure») o viventi, nel condividere le ansie e le gioie, questo rammenta nel “dialogo” con Yves Bonnefoy, che diviene il padre (anzi «uno che è meno e più di un padre»), il confidente, l’appiglio, nel riportare la trama, il dolore, il lindore, la mappa e le vicende dei suoi anni, e quel dolce stare con lui e descriverlo nelle sue varie età, mentre Yves gli sta accanto, lo guida, gli fa vedere: «Quando vide nudo e vero e reale/ il mondo che aveva visto Yves bambino./ Quello è il ricordo della mia vita,/ pensava l’uomo, l’infanzia di Yves./ La mia sarà il ricordo di un altro, non so dove./ O lo sta già essendo, come la sua/ che fece luce nell’età della pietra». Oppure è in quel respiro che giunge dal ‘canale’ creativo veneziano, in unità totale con Marco Polo, figura centrale e sempre presente nei suoi libri, e da lì ammirare e seguire l’avventurarsi «verso la luce e il buio», e il necessitante cammino girovago sognatore e folle, di un grande artista, amico dei poeti, come Marco Nereo Rotelli, a cui dedica una bella poesia.

Ci vuole un occhio al passato, ai miti, alla storia, alla fiaba, ci vuole un occhio allo scorrere del quotidiano procedere, quel via vai di esistenze e cronache, per tessere le ragioni di una vita collettiva e individuale, fatta di partecipazione e condivisione, fantasia e sentimento fanciullesco, amore per il racconto. Ciò riferito sia alle eroiche figure (Achille, Morgan, ecc), sia alle misere vite che ci vivono a un passo, come nel caso dello straccione rannicchiato, in una notte gelata, vicino al Teatro San Carlo a Napoli e che farà protestare un famoso ballerino ma che fa dire alla bellezza che lei è dalla parte del disperato: «So che mi hai visto, lui, non l’étoile,/ non il ballerino più famoso del mondo/ che pure ha votato a me la sua arte./ Lui, non l’étoile mi ha salvato, il morente». E quando rivede le storie di Aladino, di Cenerentola, di Malefica, ecc. sarebbe limitato pensare a una riproposizione delle fiabe con una versione personale, invece che ritrovare la ricerca di un filo che si snoda attraverso la fantasia e lo stupore bambinesco, per dirci dei gangli segreti dell’esistenza, in un rapporto armonioso con essa, che contempli anche una forma critica di serenità.

cop MussapiQuella di Mussapi è la passione di riproporre o ritrovare miti, riti, racconti, usanze del passato, è riappellarsi ai segni segreti racchiusi in tali storie, come il caso della piuma del Simorgh, cioè il richiamo all’uccello della mitologia persiana, che viveva sull’albero dei semi. Qui il poeta dice della necessità di ritrovare il filo del labirintico cammino e del nostro sostare nel mondo, l’urgenza di una conoscenza dell’universo frastagliato e complicato in cui si vive, e procedere nella direzione della luce assoluta, per ricevere il sospiro pacificato e gioioso, il senso profondo «ansimando e affannandoci/ come bambini cercavamo il Simorgh,/ inconsapevoli del suo segreto e il suo dono,/ la vita, piena, che avevamo accanto».

Il poemetto finale è dedicato a Maria, un delicato, emozionante e partecipe sguardo alla donna ‘prima’, alla madre di tutte le madri, e rivivere con essa e attraverso essa il cammino di Cristo, e ammirare la sua dolce presenza e il suo composto dolore. La donna santa che «venero, regina nel suo regno di silenzio e ombra», che Dio «fece ascendere, viva, alle stelle/ e alla meraviglia celeste creata per sempre». Una storia, quella di Maria, che conosciamo di riflesso attraverso la figura del Signore, mentre nello scritto di Mussapi, ella diviene personaggio splendente di luce propria, centro del dramma accanto, o meglio in simbiosi, al Figlio. Si inchina il poeta di fronte a questa dolce divina presenza, oggetto certo di grande venerazione, ma pur sempre posta in una posizione incerta, e la Madonna delle tante versioni, diviene poetica e sublime icona, soggetto affascinante nella sua misericordiosa serenità.

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