Danilo Maestosi
A Sant'Andrea della Valle di Roma

L’arte del dolore

Per il Giubileo Ennio Calabria ha reinterpretato la rappresentazione della passione di Cristo. E ne ha tratto un Crocifisso che scava nel dolore concreto e nel mistero dell'uomo di oggi e sempre

Umano. Troppo umano, forse. Ma chi ha detto che per riallacciare il filo del rapporto tra l’arte e il sacro da troppo tempo spezzato non si debba ripartire proprio da li: dall’uomo, dalle sue debolezze che gli hanno impedito di difendersi da chi gli stava sottraendo il senso di sé? Chi ha detto che la fede, per chi ce l’ha, si declini solo con il trascendente e non con l’immanenza del dolore e della paura? Chi ha detto che l’arte non possa ritrovare le parole per dire e per dirsi nel mistero e nella miseria dell’uomo che sembra aver abbandonato alla sua sorte, quando la furia kamikaze delle avanguardie l’ha convinta a estraniarsi da se e dalla sfida con il mondo e quando lo scettro di comando è passato dalla politica all’economia, dalla filosofia alla tecnologia?

Sono le domande con cui mi ha catturato il Crocefisso, umano troppo umano, che Ennio Calabria, maestro dell’arte di figura italiana, una splendida carriera di continua sperimentazione cui la critica modaiola non riserva più attenzione, ha appena finito di dipingere, nella cornice di una manifestazione fiorita nel solco del Giubileo. Un’iniziativa che ha chiamato sette artisti contemporanei a misurarsi con l’icona del martirio di Cristo e ad esporre i propri lavori in sette chiese del centro di Roma, dove resteranno a lungo in vista.

A Calabria il copione ha assegnato la basilica di Sant’Andrea della Valle, una sola navata centrale, incastonato nell’abside un capolavoro seicentesco di Mattia Preti che raffigura il supplizio del santo patrono, fratello di San Pietro, ucciso a Patrasso: il corpo di un gigante divaricato su due legni ad x, in basso aguzzini e supplici, in alto un coro di Paradiso che incorona il suo sacrificio e la sua morte come un trionfo della Chiesa della Controriforma.

La tragedia del Cristo dipinto da Ennio Calabria non ha invece spettatori: si consuma nella solitudine, in uno spazio che reclama il vuoto, lo abita, chiedendo a chi guarda l’opera di colmarlo. Va in scena su una gigantesca tela appesa per l’occasione – in una cappella laterale – a un cavalletto alzato oltre la balaustra, illuminato dai bagliori della luce naturale che calano dall’alto imprevedibili ma sembrano emanare dal quadro stesso. È una tragedia che ci precipita addosso. Alla lettera. Perché la croce è inclinata in una prospettiva da vertigine, una caduta che fora gli occhi.

È una croce che ha la consistenza della pietra e non quella porosa del legno. Un monolite che ricorda quello di 2001 Odissea nello spazio di Kubrik: il mistero del messaggio che giunge dall’alto. Non marmo però. Il colore è traslucido, metallico. Penso che l’autore abbia inchiodato il suo martirio di pennellate e colpi di spatola al silicio piuttosto, alla materia di cui si cibano i neuroni dei computer e dei robot, perché è contro questi nemici, che nel suo breve testo di accompagnamento, invoca salvezza e redenzione per l’uomo spaesato e spossessato di oggi. Qui e ora e non nell’aldilà. E presto: il corpo di cui dipinge lo strazio è già in via di decomposizione. Perché nel Cristo che si immola sulla croce Calabria coglie soprattutto la miseria di un corpo umano straziato che si dibatte tra la vita e la morte , urla la perdita di se. Un braccio è ancora inchiodato, prigioniero della morte. L’altro si è liberato, afferra la trave di legno, come sostegno ai suoi dubbi non più come strumento di tortura. E poi le membra squassate, il collo che sembra quasi divelto, il corpo gonfio e squarciato, massa di carne e di ombre. E il viso voltato: si vede solo la nuca , l’attacco dei capelli. Un uomo come tanti, perché il Dio che gli ha imposto il sacrificio, Calabria lo sa, è irrappresentabile. Comunque irraggiungibile.

Umano, troppo umano forse. Perché è con l’uomo, che l’arte si misura inseguendo l’invisibile che è in lui, quel suo affannoso coagulare, proiettare nell’immagine di Cristo le attese di riscatto della propria Specie, come spiega Calabria nella sua nota di presentazione. Una spiegazione da laico. E un’icona insieme tenera e crudele che al sacro comunque restituisce il sacro. Ma un sacro fuori canone. Un’eresia di disperazione e speranza.  Senza dubbio la interpretazione più originale e inquietante tra quelle che questa mostra giubilare propone. Con questo cartellone: Alessandro Kokocinski a Santa Maria sopra Minerva, Vincenzo Getaniello a Sant’Andrea al Quirinale, Ernesto Lamagna nella Chiesa del Gesù, Giovanni Tommasi Ferroni nella basilica dei Santi Apostoli, Riccardo Tommasi Ferroni, presente con un quadro realizzato nove anni fa prima della morte, nella Basilica di San Marco Evangelista, Giuliano Vangi nella chiesa di San Giovanni in Augusta.

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