Valentina Fortichiari
“Tutte le donne di” di Caterina Bonvicini

Aspettando Vittorio

Una corte femminile si interroga sulla scomparsa dell’uomo a cui ruota intorno. Svelando molto della nostra vita. Bello, appassionante, lirico, il romanzo della Bonvicini, autrice di storie emblematiche e convincenti

Un uomo che sia stato al contempo figlio, due volte marito, due volte padre, amante, fratello, è possibile che – scomparendo – generi un inatteso scompiglio fra le donne che lo hanno amato? Si, è possibile qualora le esistenze di tutte le sue donne, troppe donne, siano state totalmente convergenti sulla sua. Senza preamboli, Caterina Bonvicini  nel suo bel romanzo (Tutte le donne di, Garzanti, 196 pagine, 16 euro) entra subito in medias res, ma avvince e tiene il lettore col fiato sospeso sino alla fine, sino alla soluzione di un enigma, pressoché inimmaginabile, impossibile da districare. Un uomo scompare scegliendo proprio la vigilia di Natale, senza chiedere il permesso a nessuno, ovvero a nessuna, «stufo di essere un gentiluomo del cazzo». La grande tavolata, che dovrebbe riunire tutti, è pronta, e lì scatta l’allarme. Ognuna si interroga come può e deve, prima fra tutte Camilla, la giovane amante, a disagio, quasi estranea, ammessa forse per dovere fra «quelle lì» o «quelle streghe», come le chiama la madre ossia nonna Lucrezia, la più anziana della compagnia.

Sarebbe da subito un rompicapo senza risposta se non sopraggiungesse un laconico sms: «Scusatemi. Ho bisogno di prendere un anno sabbatico anche dalla mia vita» (chi non ha mai sognato di farlo?). La sequela dei capitoli narrativi, dove ciascuna delle sei donne racconta la propria storia o la propria verità, copre un arco di stagioni lungo quasi un anno, dove le stagioni coincidono piuttosto con le feste comandate (Natale, Carnevale, Pasqua, Ferragosto, Sant’Ambrogio), una dimensione di vacanza (o perenne vacanza dalla vita?) e di riti quasi obbligati di convivialità, per continuare a onorare l’assente. Camilla l’amante, e poi Ada l’ex moglie, Francesca la sorella, Cristina la moglie, Paoletta la figlia maggiore, Giulia la minore, Lucrezia la madre, hanno attraversato la vita di quell’uomo che, scomparendo nella regione dei fantasmi, ha il potere di renderle tutte «troppo nude e troppo sole»: per colpa di lui o per suo merito, ognuna di loro, nella rivalità di possesso, ha continuato a recitare il proprio ruolo, sempre oltre le competenze, «la madre che tende a essere moglie, in conflitto con la moglie che tende a essere madre. La figlia che si sente moglie, urtando la moglie che ha bisogno di sentirsi figlia». E dileguatosi il Vittorio (come lo nomina la madre, con quell’articolo molto milanese anteposto al nome), che cosa ne è di queste donne, messe una di fronte all’altra e a se stesse? Nulla, se manca l’ago della bilancia, o della bussola, se manca colui che sapeva proteggerle, fare loro da schermo.

caterina-bonviciniEd eccola la formidabile trovata (e il titolo) nel romanzo di Caterina Bonvicini (foto a destra, ndr), quel semplice genitivo, di, una donna di, quel banalissimo ma congruo complemento di specificazione che fa di ogni donna (qui, ma non anche altrove?), di ogni sentimento amoroso femminile, soltanto un fantasma in assenza di possesso maschile. Quale altro meccanismo allora resta per sopravvivere? Stare unite, ritrovarsi, consolarsi, frequentarsi, connettersi, affinché l’ombra che giganteggia alle loro spalle sia evocata, rimpianta, maledetta, odiata-amata. Perché scopo della vita a volte è «raddrizzare le cose»: ognuna lo fa, come tutte, come si può, perché «le cose devono fare il loro dovere di cose: devono stare lì e tranquillizzarci». In quelle loro esistenze a metà di donne tutte abbandonate si scatena il gioco dell’Autrice, che – avida di leggere e descrivere le storie umane, come ha fatto anche nei precedenti romanzi – si diverte a farle agire come marionette di un teatro della solitudine, dando loro voci di volta in volta in prima persona, in seconda o nell’impersonale terza, sino a un “noi” destinato a diventare polo d’attrazione che ricompone il dramma dell’assurdo: si smette finalmente di aspettare ma anche di litigare e si diventa inseparabili, alleate in un’assenza che ha creato una vera famiglia allargata.

Si sente proprio che la Bonvicini, abile con quell’occhio giusto, uno sguardo acuto e un modo del tutto naturale di vedere e andare al fondo dei suoi personaggi (come del resto raccomanda nel libretto scritto con Alberto Garlini, L’arte di raccontare), feroce e insieme generosamente empatica, manovra abilmente i fili della recita e i dialoghi, gioca con i molti archetipi femminili, scoprendo tic, manie, ossessioni, contraddizioni. Per ogni età, e qui ci sono tutte, individua i nodi nevralgici: dilemmi e debolezze dell’adolescenza, fragilità e incidenti di un processo di crescita, segreti della seduzione e paura di invecchiare, ribellione guerriera e spregiudicata della vecchiaia. Questo “al di qua” terreno che è la vita, la faticosa e insieme esaltante, imprevedibile avventura della vita, Caterina Bonvicini deve conoscerlo bene se può permettersi il lusso di tradurne in parodia certi aspetti che l’hanno incuriosita, come la mitologia del cibo che divora tutti i pensieri, le smanie per la villeggiatura e la competizione implacabile per la spartizione di una villa, i confini labili delle relazioni sentimentali canoniche e non, il mondo piccolo e sfavillante, ma spesso ambiguo, precario, delle case editrici. E se nel viaggio il vero problema è piuttosto tornare indietro, per esempio nelle spedizioni alpinistiche (non è forse anche Vittorio una cima un po’ troppo immaginaria dalla quale bisogna imparare a scendere?), se nel rapporto tra uomo e donna ciò che spesso alla fine viene a mancare è proprio l’emozione dei precordi, i momenti che precedono ogni fatidico incontro, e ciò che resta è la fatica di una seduzione («prima devi imparare a piacere, poi devi imparare a non piacere, solo dopo impari a fregartene»), nell’universo editoriale il nome elegante di pierre o ufficio stampa, che potrebbe far pensare a un ruolo esaltante, nasconde a volte l’altra faccia, umile e degradante, di essere nient’altro che la badante di una vecchia scrittrice.

Soltanto Lucrezia sembra riscattarsi, ai suoi occhi e ai nostri, con la sua smania di vivere ancora a 89 anni, portare la barca da sola, progettare alberghi, guardare il cielo e inventare un soffitto, distribuire consigli di saggezza. A lei va certamente la simpatia di chi questo romanzo piacevolissimo l’ha scritto e di chi lo leggerà.
Milano, per non citare la Svizzera, Parigi e il paesaggio lacustre, è uno sfondo conteso tra fascinazione e cupezza, una Milano che negli anni Sessanta fece sognare nei cabaret, una Milano trionfale grazie alla Scala, grottesco termometro di successo («ti invitano? Allora conti, a Milano o nel mondo»), una Milano bellissima in primavera ma disperatamente vuota nel fine settimana, infine una città piena di donne sole.

cop BonviciniQuando il Vittorio decide di farvi ritorno, scende dal treno e subito guarda il cielo: siamo all’inizio dell’ultimo capitolo, l’unico con voce maschile. Sapremo finalmente che cosa è accaduto a un anno dal misterioso esilio? Il romanzo che sta per chiudersi ritrova nel congedo il clima festoso del Natale, tutto sembra tornare all’inizio, Vittorio è nuovamente atteso a tavola. La vicenda ha compiuto un ciclo temporale perfetto. Ma, infine, si può «fingere la perdita/di quel che non è stato mai,/ che certo mai sarà?»: il dubbio nei versi di Patrizia Cavalli, citati in exergo, suggerisce un epilogo? Forse no, e probabilmente neppure interessa più il destino delle protagoniste: ciò che il lettore scopre nelle ultime pagine, le più profonde, le più intensamente liriche, è un piccolo tesoro. Vittorio ricompare e insieme si congeda lasciando pensieri e interrogativi sul dolore vero («quello acuto, dura pochissimo. Scoppia dove scoppia e tu non ci puoi fare niente»), sui cambiamenti repentini di una esistenza che ha dovuto andare controcorrente e combattere per scoprire un affetto autentico e una tardiva felicità (come fa la giovane scrittrice Caterina a sapere «quanto ci mette la gente a capire che la parte trionfante dell’esistenza è finita?» e soprattutto quando finisce?), da ultimo sul senso vero di una identità a partire da un nome e un cognome, Vittorio Fumagalli, scritto su un citofono che non sarà mai suonato.

Che costa resta di questo Vittorio che è stato un grande scrittore e un piccolo grande uomo, che ha imparato a stare bene in se stesso, a dispetto della sua corte femminile? La capacità di abitare vicino al mare e di sentirne gli umori, guardarne fondali e mareggiate, essere tutt’uno con agavi e cormorani, diventare parte del gioco dei venti. E infine il privilegio raro di saper amare in modo completamente nuovo, diverso dal passato. Ma come e chi, non possiamo rivelarlo.

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