Mario Dal Co
La storia si specchia in una città

Il mito di Samarcanda

Marco Buttino ha ricostruito la storia di Samarcanda, da cuore dell'islamismo alla crisi d'identità post-Ottantanove. Una città simbolo di un secolo di incertezze

«Capite, non sono andata a Samarcanda per tre anni e mi aspettavo qualcosa di straordinario. Ma questo qualcosa di straordinario non si è realizzato, compagni! Tutto è buttato lì, nulla è finito.(…) chi è riuscito a strappare un pezzetto di terra si è fatto una casa, indipendentemente da qualsiasi coordinamento e disegno della città (…) Invece Taskent ha un nuovo volto (…) perché ci ha molto aiutato, se così si può dire, la sciagura del terremoto che ha compiuto la distruzione. Il Comitato esecutivo della città ha così potuto demolire e ricostruire tranquillamente, costruire intere vie»: così si esprimeva al Plenum degli architetti del 1970 una rappresentante dell’organismo incaricato della pianificazione urbanistica. Manifestava la sua delusione per la ristrutturazione di Samarcanda, avviata l’anno precedente per i 2500 anni dalla fondazione della città, che non rispondeva ai dettami della pianificazione sovietica.

Marco Buttino (professore di storia contemporanea all’Università di Torino) ha lavorato per oltre dieci anni a Samarcanda, e ha ricostruito le vicende di questa città, concentrandosi sul passaggio dall’impero sovietico alla modernità. In Samarcanda. Storie in una città dal 1945 ad oggisi è avvalso  di fonti diversissime, da quelle statistiche, fotografiche, documentali a quelle dei testimoni privilegiati, intervistati per capire ciò che i dati e i documenti non rivelano, anche perché spesso inaccessibili.

Samarcanda. Storie in una città dal 1945 ad oggi, di Marco ButtinoLo studio propone percorsi diversi di lettura, come è inevitabile, data la ricchezza delle fonti e l’ampiezza delle riflessioni che esse consentono. Uno di questi percorsi attraversa la città vecchia: «proviamo dunque ad entrare in questa parte “buia” di Samarcanda seguendo la politica russa e sovietica rivolta ad aggredire la diversità islamica. Poi considereremo i compromessi, anche sul terreno della religione. Infine indagheremo su quanto rimase ancora di tajico in questa parte della città, al di là della religione, nella sua vita quotidiana» (p.101). Scopriamo come la politica zarista abbia cercato di limitare l’applicabilità della shari’a e tentò di mettere sotto controllo i waqf ossia  le proprietà delle istituzioni islamiche, perno del loro potere sociale prima che religioso. Le istituzioni islamiche possedevano, attraverso queste forme di donazioni da parte delle famiglie, migliaia di ettari coltivabili, e gestivano attività economiche, usando i redditi per coprire le spese delle scuole (maktab o madrasa). Le amministrazioni zariste si trovarono in forti difficoltà a documentare la situazione dei diritti di proprietà, soprattutto nella città: «I waqf rappresentavano il limite  alla capacità dei russi di penetrare nella società locale» (p. 102).

I rivoluzionari pensarono di semplificare le cose applicando il decreto di Lenin sulla terra, statizzandola e controllando direttamente il bazar. «La via rivoluzionaria si apriva così con una dichiarazione di guerra verso le istituzioni musulmane e verso la maggior parte della popolazione della città. (…) Nel quartiere Siyob prima del 1917 c’erano quasi un centinaio di moschee varie sinagoghe; nel 1948 soltanto due moschee e una sinagoga erano ancora in funzione» (ivi). Perfino il cimitero islamico Shakar-Dzhizza venne profanato con la costruzione di edifici da parte delle autorità sovietiche. Arrivano gli urbanisti sovietici con i progetti dei grandi condomini socialisti, e si scontrano con le proteste della famiglie che non sanno più come controllare i bambini piccoli nelle scale o negli ascensori, senza accesso a un cortile, senza poter seguire i riti sociali consuetudinari, per non parlare della mancanza di un salone con cucina in cui fare le feste. Con il risultato di arrivare a compromessi locali, in cui anche le case sovietiche finiscono per assomigliare alle abitazioni ad un piano dei quartieri – i mahalla – tradizionali.

samarcanda2Dopo la seconda guerra mondiale, il potere sovietico cerca di istituzionalizzare un Islam riconosciuto dallo Stato, ufficiale, creando la Direzione generale dei Musulmani dell’Asia Centrale. A questo campo ristretto di attività religiose, si affiancava un più ampio e meno controllato territorio religioso non registrato. Anche qui le autorità, alternando repressione e controllo, miravano alla registrazione dei mullah e alla conoscenza dei frequentanti. Queste riflessioni storiche sono di grande attualità, ma l’autore ha costante l’attenzione a non effettuare parallelismi o semplificazioni, anche se i temi antichi ritornano, in contesti diversi, all’interno del processo di islamizzazione che oggi coinvolge parte della popolazione europea.

Samarcanda è un punto di incontro che il racconto di Buttino analizza, trovando le vie che si fanno largo, per episodi di convivenza tra uzbeki, tagichi, russi, tatari, coreani, ortodossi, ebrei, musulmani, per ricordare le componenti principali di questo mosaico. Ma il racconto apre anche continui scenari in cui quelle vie si restringono, le convivenze divengono difficili, sofferte, tormentose.

E vi sono alcune tabelle, che seguono i racconti di vita, con cui l’autore ricostruisce le trasformazioni economiche e culturali dei segmenti della società di Samarcanda, tabelle che raccontano con i numeri l’impoverimento delle identità collettive, paradosso del collettivismo che annulla le lingue, gli alfabeti, le tradizioni. In uno dei quartieri di Samarcanda, il mahalla Vostok, nelle scuole medie, la lingua di insegnamento era il tajico per il 70% degli allievi nell’immediato secondo dopoguerra, mentre il russo era al 30%; 40 anni dopo (metà anni ’80) le percentuali divengono 9,5% tajico e 90,5% russo.

Nei ricordi di una donna ebrea, intervistata nel 2012, la convivenza di etnie e religioni diverse si esprimeva in modo diretto, nella vita di ogni giorno, nella divisione del lavoro, nel rispetto reciproco delle tradizioni, valori dispersi, come abbiamo visto, da una autorità dogmatica e nazionalista: «Accadevano cose strane a Samarcanda nei rapporti tra gli ebrei e gli altri. Tutta la città veniva al Mahalla di Vostok alle cinque del mattino per mangiare uno spiedino di carne (…) e a nessuno faceva ribrezzo mangiare il cibo che preparavano gli ebrei. Certo, erano soprattutto i tajichi, perché vi erano rapporti particolari con loro, si viveva vicino, da giovani si frequentava la stessa scuola (…) si parlava la stessa lingua anche se con accento diverso» (p.180).

Dopo la caduta dell’Unione Sovietica la miseria, l’incertezza e l’attivismo di Israele spingono la popolazione ebraica all’emigrazione: «La vendita non fu certo un buon affare (…) le case vennero vendute  a 3-4000 dollari, pari a quanto sarebbe servito in Israele per pagare sei mesi di affitto (…) e le vie che erano piene di gente ora erano quasi deserte» (p. 197-198).

samarcanda1Nella pagine conclusive, appare un’immagine un po’ sfocata di una Samarcanda che cerca un approdo alla globalizzazione in quanto città turistica. È un’immagine sfuocata non per colpa dell’autore, ma per i rischi  a cui la città è oggi esposta e più lo sarà in futuro,  in ragione delle ferite subite dalle sue  identità, che erano la sua ricchezza, e che sono uscite indebolite ed offesa dal “secolo breve”.

Il volume è imprescindibile per capire sotto il profilo antropologico Samarcanda,  ma ci aiuta anche ad affrontare i quesiti che pongono le grandi trasformazioni in atto nelle metropoli dei nostri giorni, attraversate da molte delle tensioni che l’autore analizza e descrive. Tensioni che oggi sono concentrate nel tempo e dilatate nello spazio, con la capacità di  scaricare le loro energie sugli equilibri sociali che credevamo meno fragili.

Samarcanda. Storie in una città dal 1945 ad oggi, di Marco Buttino ha una ricca documentazione, riportata nelle appendici, nel glossario, nella bibliografia; è edito da Viella, Roma 2015, pp. 384 euro 29.

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