Andrea Carraro
Un romanzo pubblicato da Rizzoli

La malattia del silenzio

Alla scoperta di Antonio Di Benedetto, scrittore argentino da noi ancora poco noto, eppure di grande potenza metaforica. Come dimostra il suo «uomo del silenzio»

Antonio Di Benedetto, morto nella metà degli Anni Ottanta, è uno scrittore argentino (i genitori erano entrambi di origine italiana) poco noto in Italia e abbastanza misconosciuto anche in patria tanto che venne definito da qualche critico, vado a memoria, «il segreto meglio conservato della letteratura argentina». Ora, mi sono accostato a L’uomo del silenzio (Rizzoli) con una certa curiosità avendo prima letto la bella, empatica prefazione di Laura Pariani che mi ha letteralmente preso all’amo, e poi accompagnato in una nutriente lettura che è anche un’avventura intellettuale. Il libro è algido, severo, potentemente metaforico, e può leggersi come il referto di una malattia che si esprime nella ricerca disperata del silenzio assoluto, di luoghi non offesi dalla perfida e quotidiana sfida dei rumori.

antonio di benedettoIl protagonista è uno scrittore giovane e la scrittura svolge anche una funzione terapeutica. Non è arduo appaiare l’esile trama alla terribile esperienza del sequestro e della prigionia patiti dallo scrittore durante il golpe militare per un anno e mezzo, «Un anno e mezzo senza nessun processo: isolamento, torture, incertezza di arrivare al domani, impossibilità di leggere o scrivere. (…) L’esilio completò l’opera», ci informa la Pariani. Il libro uscì nel 1964, cioè diversi anni prima del sequestro, che avvenne il 24 marzo 1976, ma come non leggerlo al modo di una lucida e terrificante premonizione di quello che gli sarebbe accaduto e che lo avrebbe poi lentamente annientato nei pochi anni che gli erano rimasti da vivere?

Il protagonista non sopporta i rumori, dicevamo. Si appella alla normativa vigente in materia nel suo paese, scrive lettere, articoli, redige denunce, ma ottiene ben pochi risultati. Allora comincia una via crucis di cambiamenti di domicilio, sempre sfuggendo a qualche rumore (macchine, torni, elettrodomestici, autobus, onde radio, musica…). In lui è presente una qualche volontà di autoannientamento, anche se nella realtà è la società moderna tutta che si libera di lui, imprigionandolo, lo espelle dal proprio tessuto, lo rende innocuo: proprio come è successo allo scrittore durante il sequestro e la detenzione, della quale non conobbe mai il motivo.

antonio di benedetto l'uomo del silenzioL’uomo del silenzio è molte cose insieme, per questo è difficile inquadrarlo correttamente o liquidarlo in una formula purchessia. Prima di tutto, si è detto, è il romanzo di un’ossessione lungo il crinale di una quotidianità alienante. Il lavoro (impiegatizio), l’amore, la scrittura, l’amicizia, è lungo questo asse che si avvita la lotta contro i rumori del protagonista. Ma L’uomo del silenzio è anche metaletterariamente il romanzo de Il tetto, il libro che l’autore vorrebbe tanto scrivere e sempre rimanda di cominciare. «Nel mio romanzo ci sarebbe un crimine e vari indiziati, ma io stesso, l’autore, ignorerei l’identità del criminale». La riflessione sul rapporto realtà-finzione è delle meno effimere. Lo strato più profondo del libro è quello, direi, metafisico: il protagonista conclude l’arco della sua esperienza esistenziale con l’arresto e la prigionia, quasi una preparazione alla morte. «Penso all’Aldilà… e immagino un silenzio incorruttibile» dice dopo aver saputo che il suo amico Besariòn – sorta di suo doppio pedante e superstizioso – è morto. Il silenzio a cui anela sempre senza mai raggiungerlo è una condizione di pace ultraterrena. Questo romanzo dalla scrittura disadorna e originalmente cadenzata, precisa fino al cesello, a tratti potrebbe annoiare chi fosse in cerca di pura azione e psicologie. Per godere de L’uomo del silenzio occorre invece lasciarsi contagiare dalla “follia” del personaggio, calandosi senza resistenza in una dimensione filosofica e allegorica.

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