Giuseppe Giglio
Un classico della contemporaneità

Tornare a Consolo

“Lo scrittore verticale. Conversazione con Vincenzo Consolo”, il libro-intervista di Domenico Calcaterra riporta finalmente la giusta attenzione su un grande romanziere tutto da rileggere

«La mia ideologia, o se volete la mia utopia, consiste nell’oppormi al potere, nel combattere con l’arma della scrittura – che è come la fionda di David, o meglio come la lancia di don Chisciotte – le ingiustizie, le sopraffazioni, le violenze, i mali e gli orrori del nostro tempo». Così Vincenzo Consolo chiudeva quell’autobiografica intervista che è Fuga dall’Etna (1993), nel segno della responsabilità morale dello scrittore: che gli veniva dall’autore de I promessi sposi e della Storia della colonna infame. A lui che avrebbe cesellato l’epigrafe del suo ultimo romanzo, Lo spasimo di Palermo (1998), su queste parole di Prometeo: «Il racconto è dolore, ma anche il silenzio è dolore». A lui che (fin dal libro d’esordio del ’63: La ferita dell’aprile, con quel titolo così pregno di destino, e nel quale molto aveva creduto il grande Nicolò Gallo, sciamanico inventore di scrittori) aveva voluto essere narratore di memorie perdute, obbedendo ad una ferrea volontà di smascheramento delle imposture della storia e della politica. A lui che – oscillando tra Piccolo e Sciascia, Pasolini e Buttitta, e sulla scia del barocco Daniello Bartoli – quelle memorie ha sciolto nel canto della sua prosa razionalista e barocca, forgiata in una peculiare officina: dove, da finissimo artigiano qual era, in una sorta di riuscita complicità tra incanto e ragione, era scivolato (da narratore, più che da filologo) lungo l’antica e feconda verticalità della nostra lingua, tra le pieghe del dialetto, gli innesti stranieri, gli esempi letterari della tradizione. Per invenire parole ancora dotate di intrinseca purezza, ancora non consumate, non mercificate; e sedurre così verità nascoste, nel tentativo di restituire il senso delle azioni degli uomini. Con quella sua specialissima prosa che ha spesso i toni e la cadenza della tragedia; con quella sua «metrica della memoria», da cui non di rado affiora un ironico sottofondo: ora grottesco, ora parodistico.

lo scrittore verticale vincenzo consoloE a proposito di verticalità (la dimensione che più appartiene all’autore de Il sorriso dell’ignoto marinaio, 1976), proprio Lo scrittore verticale. Conversazione con Vincenzo Consolo si intitola il libro-intervista di Domenico Calcaterra, edito da Medusa, con un’appassionata e struggente prefazione di Antonio Franchini, a poco più di due anni dalla morte dell’ultimo dei grandi scrittori siciliani, scomparso il 21 gennaio 2012. Un libretto smilzo eppure ricco, questo di Calcaterra, ove si legge la stessa conversazione che il giovane critico ebbe con Consolo nel 2006, poi uscita in margine all’esordio letterario dello stesso Calcaterra, l’anno successivo: Vincenzo Consolo. Le parole, il tono, la cadenza (Prova d’Autore), la monografia dedicata al suo illustre compaesano (perché anche Calcaterra è di Sant’Agata di Militello), ma ancor più una felice testimonianza di quella preziosa malia che è la creazione, la scelta, da parte di uno scrittore, dei propri lettori, fino a stabilire con essi un rapporto privilegiato, da uomo a uomo; nel senso che il lettore si sente coinvolto, come in un gioco di intelligenza attiva. E fu proprio un gioco di intelligenza attiva, quella conversazione, e ancor più un’avventura morale: per un giovanissimo Calcaterra (all’epoca trentenne) che già respirava tutta la bellezza di un’impronta profonda e indelebile, nella propria educazione letteraria ed intellettuale.

vincenzo consolo3Un’impronta che oggi si carica di un nuovo senso, di una verità nuova, che può venire da una diversa lettura dell’opera consoliana: perché, dice Calcaterra nella nota di edizione, «la conversazione qui riproposta ai lettori difetta di quelle domande che, in vita lo scrittore, mai avremmo osato porgli e le cui risposte solo adesso dovremmo accontentarci di rintracciare nel corpus dei suoi scritti; maturo forse il tempo di leggerli sotto altra luce, per riannodare i fili di […] un Consolo notturno, melanconico, che dietro all’archeologia barocca di fatto ha dissimulato i segni di una mai ricomposta lacerazione». Di una ferita, cioè, rimasta aperta. Sin dal primo libro consoliano: quel La ferita dell’aprile che aveva già in sé il volto del suo autore. Ed era, quel volto, una sorta di aleph: nel quale era già impressa – come un destino da decifrare – tutta la parabola che quell’instancabile cercatore di verità avrebbe disegnato, fino alla fine dei suoi giorni. A mostrare l’uomo continuamente oltraggiato e ferito, a dar corpo e sangue alle tante vite avvilite, mortificate, dimenticate. Da viandante sempre in moto e sempre a disagio, che ogni tappa reinventava nel sortilegio di una narrazione originalissima, di un’irrinunciabile utopia. Da inquieto e letteratissimo Ulisse, che, dopo aver ascoltato, senza fermarsi, l’ennesima sirena, continuava a sognare un’Itaca senza Proci, senza scempi e nequizie: la mafia, il sangue, la corruzione, la distruzione del paesaggio, l’abiezione politica, lo sconvolgimento antropologico. E la distillava, quella sua Itaca, da quel brulichio di alchimie sintattiche, di fermentazioni lessicali, di eccitazioni prosodiche che è la sua scrittura: nel segno di un abbandono al primato del giudizio conoscitivo e morale della letteratura, di quel «varco verso la genuina esperienza dell’esistenza umana», per dirla con Max Frisch, oltre e contro la lingua del potere, dei poteri. Laddove la scrittura diventa una «legittima difesa contro l’esperienza dell’impotenza», per citare ancora Frisch: che mai ha smesso di credere nel sogno, nell’utopia della letteratura, ovvero «l’utopia secondo la quale la condizione umana potrebbe essere diversa».

«Era un uomo piccolo che esprimeva una grande forza, enorme determinazione, una fede incrollabile nella letteratura», ricorda Antonio Franchini. E rameggia, quella forza, nelle pagine consoliane: in un capolavoro come Il sorriso dell’ignoto marinaio, o in Nottetempo, casa per casa (1988), che con Lo spasimo di Palermo forma una splendida trilogia romanzesca. Per non dire di Lunaria: una fiaba del 1985, che significò il rifiuto della forma romanzo: l’abbandono della storia per il mito, della prosa per la poesia. O di Retablo (1987) e di Le pietre di Pantalica (1988). Un romanzo ed un volume di racconti: un viaggio fisico e insieme metafisico, per ridare un necessario ordine al caos. E ne Lo spasimo di Palermo (la vicenda di uno scrittore che rischia di non scrivere più, nell’Italia delle stragi di mafia), Consolo racconta il capitolo forse più attuale del nostro Paese: che sempre di più somiglia a una sorta di «materno confessionale di assolvenza», in cui tanti fanno peccato, ma nessuno è colpevole. E non c’è bisogno di citare altre opere (oggi tutte raccolte nel Meridiano curato da Gianni Turchetta): per dire che non si può non continuare a raccoglierle, le confidenze che questo grande scrittore dell’esistenza ci ha lasciato, proprio a partire dalla sua ferita. Un narratore, più che uno scrittore: come lo stesso Consolo, di se stesso, confida a Calcaterra. Con quel suo sorriso fuggevole e un po’ amaro, come quello del suo marinaio. Che è certo il sorriso di un Ulisse melanconico, che tante ferite aveva visto: spesso immedicate, quando non mortali. Ma è anche il sorriso di un Ulisse instancabile, che antica confidenza aveva con il proprio arco: a lenire un dolore, a cancellare un’offesa.

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