Paolo Petroni
A proposito del libro “Fine missione"

Parliamo dell’Iraq!

Non bisogna chiudere gli occhi di fronte al dolore e all'orrore di un conflitto che ormai sembra cronico. Tanto da passare sotto silenzio... È questa la lezione dei racconti di Phil Klay (come di "American snipers” di Clint Eastwood)

Cosa è stato essere per le strade di Ramadi in Iraq, militare Usa in missione con l’ansia dell’agguato, tornato a casa «non puoi descriverlo a chi non c’era, tu stesso fai fatica a ricordarlo perché non ha senso. E fingere che qualcuno potesse vivere e combattere in quella merda per mesi senza impazzire, be’, è questa la vera follia».  Lo afferma uno dei veri e tragici personaggi dei racconti di Fine missione di Phil Klay (Einaudi, pp. 248, 19,00 euro) che tornano a proposito per capire, per esempio, un film che ha fatto discutere come American sniper di Clint Eastwood.

Trovo che quel film sia stato un atto di coraggio, un po’ come questo libro (ma l’impatto dei libri è diverso e questo ha anche vinto il National Book Award), e che la molla che ha mosso Eastwood sia in una osservazione desolata del protagonista Kyle, tornato dalla prima missione (che cito a memoria, ma senso e parole sono queste): «Noi siamo qui a maneggiare i nostri cellulari, stiamo andando al centro commerciale come nulla fosse, mentre laggiù la gente che ci difende muore e nessuno ne parla, nessuno sembra saperlo, nemmeno la tv lo ricorda». Ecco la guerra aspra e feroce che si combatte lontano e che in patria si cerca invece di dimenticare, di sorvolare, perché se si dovesse dire la verità, come fanno questo film e il libro, sarebbe troppo duro e poi ci sono sempre quelli pronti a dire che si tratta di retorica dell’eroismo bellico e soprattutto del patriottismo Usa, che è comunque qualcosa che conosciamo, reale.

Fine missione di Phil KlaySi tratta invece di parlare di quel che sta accadendo laggiù, e di cosa succede poi ai reduci che hanno terribili difficoltà di reinserimento dopo aver vissuto uccidendo e con la paura di essere uccisi a ogni momento, a contatto con violenze  e torture inaudite (basterebbe la scena del soprannominato «Macellaio», l’uomo di Al Qaeda che tortura il bambino per far parlare il padre in American sniper). Tutte cose molto disturbanti per la normale vita e economia americane, che devono continuare a marciare proprio come nulla fosse. E questo, un uomo come Clint Eastwood (come il suo meraviglioso riparatore di torti di Gran Torino) non può accettarlo, sia per la sua formazione ideologica ben nota, ma non solo, assolutamente non solo. E quindi spiattella con coraggio tutta la violenza, tutta la follia, tutto il disagio in faccia ai suoi spettatori, in faccia all’America tranquilla che una sera se ne va al cinema, come per farsene coscienza attiva. Il film si potrebbe leggere persino come una denuncia delle conseguenze di un certo patriottismo pre ideologico, istintivo.

Del resto, per questo film come per i racconti di Klay, ma già avevamo letto anche il più romanzesco Yellow birds di Kevin Powers (sempre edito da Einaudi due anni fa), la guerra non ha ormai più nulla di eroico (semmai eroico è tornare dopo alla vita normale cercando di far finta di nulla, che è praticamente impossibile – e si veda anche solo il primo, quasi delicato racconto che da il titolo alla raccolta di Klay e narra dell’uccisione di un cane). In queste guerre non ci sono più grandi gesta che possano divenire oggetto di racconti epici, come era ancora per la Prima Guerra Mondiale (anche se Emilio Lussu e Blaise Cendrars già ci raccontarono l’orrore e la follia di quel conflitto) e un po’ per la Seconda, con certi atti di resistenza ai nazisti.

Se c’è un regista antiretorico (come ha dimostrato ormai in mille occasioni) è proprio Eastwood e quindi ci narra con naturalezza come il suo Chris Kyle, cowboy texano dall’ottima mira, decida di mettere patriotticamente le proprie capacità al servizio del suo paese, dopo gli attentati alle sedi diplomatiche Usa in Kenia e in Tanzania, e solo dopo, ormai arruolato e già stato in  missione, quello alle Torri gemelle dell11 settembre. Con la sua abilità e determinazione, diverrà senza volerlo, una leggenda, il cecchino che ha ucciso più nemici in Iraq e che ha fatto tacere anche il suo alter ego, il campione di tiro jhadista. Kyle soffre per quel che vede e vive, non si sente per nulla un eroe ed è anzi disturbato da chi lo mitizza.

Yellow birds di Powers, toccando questi stessi argomenti, era un vero romanzo sul tema dell’amicizia e dell’illudersi di diventare uomini andando in guerra e su come la guerra ti distrugga dentro e ognuno personalmente la perda sempre, ne esca sconfitto. Come si sa, il Kyle di Esatwood non muore in Iraq ma ucciso da un reduce fuori di testa e che lui sta aiutando a reinserirsi vicino a casa sua, in Texas. I racconti di Klay, che sono apparentemente più cronachistici ma frutto di sapiente scrittura, ci portano a visitare tutti gli aspetti della missione e si legga Corpi con l’io narrante che fa parte della squadra raccattacadaveri dei Marines, forte, incisivo  nel sovrapporre passato e presente di uno straniante ritorno a casa. In queste pagine, come in tutto il libro, è il ritmo della narrazione, della scrittura che sorprende, tenuto sempre alto, proprio come la tensione e l’ansia di chi è in combattimento; quindi c’è lo scontro tra le proprie abitudini e il mondo nuovo in cui ci si trova, magari costretti a uccidere un bambino che per fare l’eroe raccoglie il mitra del padre e comincia spararti addosso (Dopo l’azione, ma una scena simile c’è anche nel film di Esatwood) e ti lascia un senso di colpa feroce; infine lo straniamento di chi è superarmato, tecnologico e parla per sigle, KIA, IED, COSR e così via (in appendice il loro elenco e decodifica prendono cinque pagine), come per tenere a distanza e neutralizzare quel che significano: Kia è semplicemente Killed in action-Caduto in battaglia, e magari è legato a un amico; Cos è Combat and Operational Stress Reactions-Reazioni di stress da combattimento; Ied è Improvvised Explosive Device-Ordigno esplosivo improvvisato, il più temuto, quello di tutti gli attentati, quello per cui si muore di più, che fa saltare camion e immobilizza mezzi corazzati. E Klay (vedi il racconto ‘OIF’, Operation Iraqui Freedom, definizione governativa per quella guerra) ce le mette tutte, ci racconta come in presa diretta e come lo dicono le persone, adeguandosi ai documenti ufficiali.

Naturalmente accanto agli orrori, la gente torturata, gli hajji che è quasi impossibile distinguere se sono amici o nemici, le ferite e i lutti, c’è la corruzione, in Iraq ma anche nell’esercito Usa, la politica lontana e assurda (‘Il denaro come sistema di armamento’ e persino l’idea di importare il baseball tra gli iracheni), gli odi tribali e religiosi (tra sciti e sunniti) che impediscono il procedere del percorso di pace, ovvero gli aiuti sociali e tecnici per una ripresa della normalità che dovrebbero andare di pari passo con la guerra. E nonostante tutto questo ecco che un cappellano pieno di dubbi, impotente, che afferma: «Eppure ho la sensazione che in questo luogo vi sia più santità che in patria, nella nostra patria ingorda, grassa, malata di sesso e consumista».

Le storie di Klay, di ottima fattura e scrittura limpida e incisiva, e per questo più coinvolgenti e vere,  tra le migliori mai lette sull’argomento (come ha sottolineato lo stesso presidente Obama), raccontano, sempre inserendolo nel contesto generale, chi lotta con la propria ragione, chi fa i conti con i parametri di ‘normalità’ che non hanno più senso, chi è oppresso dalle morti, chi spara prima di pensare o pensa troppo, chi vive un cameratismo col quale misura solo la sua sensazione di solitudine, il seme del rimorso che non darà più pace, anche a “fine missione”, come si intitola la raccolta che, appunto, guarda, racconta e ricorda sempre dal punto di vista di chi è tornato a casa.

Più dei reportage giornalistici, più delle memorie tout court, è con la mediazione artistica, cinematografica o letteraria dell’esperienza che finalmente riusciamo a capire davvero, emotivamente e psicologicamente oltre che nei fatti, cosa sia la guerra oggi, cosa sia per gli americani in Iraq e Afghanistan, anche se certi problemi cominciamo da averli anche noi, tra i nostri reduci da quei luoghi, come testimoniano le inchieste di un’inviata come Barbara Schiavulli.

Facebooktwitterlinkedin