Vincenzo Nuzzo
Una società in ostaggio

Crescere stanca

L'unica filosofia riconosciuta dalla contemporaneità è quella che induce alla "crescita": un totem che ha a che fare solo con l'economia, non più con le solidità interiori

L’Alitalia minaccia Fiumicino che, «se non ci saranno investimenti», se ne andrà «a crescere altrove». Lo psicoterapeuta rimprovera aspramente il nostalgico di casa di non voler «crescere all’estero». E un altro dice che «per essere felici bisogna anche fare del male». I fenomeni sono convergenti. Tutti sotto-ordinabili ad una specie di nuova etica ‒ quella del crescere.

Un tempo questo verbo aveva tutto un altro significato. Era una cara e vecchia parola, che sapeva di un fragrante misto di rigogliose speranze nel futuro e di sollecite e preoccupate (santa e grata parola, anche questa!) cure genitoriali. Come mai ha assunto ormai questo insidioso significato neo-nietzschiano? In esso si legge infatti l’appello alla spinta febbrile verso un muoversi in avanti superandosi incessantemente, auto-trascendendosi verso il futuro sotto la sferza della volontà di potenza. E soprattutto sapendo accettare che ciò non costruisce un bel nulla ma invece solo e soltanto crescita. Il valore dei valori. Immateriale, sublime. Più ancora del surplus marxista. Crescere all’infinito. La vita sarebbe questo? E dunque il mondo cresce, ma verso cosa? Se non c’è più nemmeno il minimo barlume di sicurezza nel futuro. Del resto, se interpretata nietzschianamente, la crescita proprio tale certezza dovrebbe spazzare via. Il valore è dunque qualcosa di solo fine a se stesso.

Guardandosi intorno in questa torrida estate non è difficile ritrovare i segni di tutto questo.

Un primo segno: «Di cosa si occupa?». «Sono un imprenditore!».

Chissà perché ha il tono di una risposta tranchant. Essa infatti tende in genere a voler chiudere il becco all’impertinente che ha posto la domanda. Significa che chi si definisce imprenditore è in realtà chi una volta veniva definito bottegaio. E l’infamia deve ancora sussistere, visto il tono della risposta e vista la valenza abrogativa del neo-aggettivo. Ma, così come il crescere, cosa vorrà mai dire essere-un-imprenditore? La risposta mi viene da una di quelle feste estive pre-vacanze. Una sorta di pre-sciistica in sordina da fare precedere alla sfarzosa fioritura barocca di una vacanza coi fiocchi. In questa festa ci sono quelli che fanno le vacanze in barca. E che quindi, per almeno il 40% del loro tempo, parlano di barche ‒ stazza, metratura, furnitures, memorie di raffinate scorpacciate, possibilmente avventure perigliose ma comunque a lieto fine. Naturalmente l’altro 60% del tempo viene speso in racconti di un eccitante nulla. Gigionismi esibizionisti che la versione moderna, raffinata ed à la page delle antiche colossali balle del pescatore. Figura oggi naturalmente alquanto imbarazzante. Sopra di lui la crosta di vernice distesa dalla generazione dei 40-50enni sulle vergogne strapaesane di un paese che proprio non può più permettersi di riconoscersi povero.

Ed ecco il noblesse oblige dell’essere imprenditore. Loro infatti gràssano, nonostante la crisi. I capacissimi serbatoi delle loro barche vengono ancora riempiti, nonostante la crisi. Le mogli griffate, viziate e viziose (belle davvero ma solo per convenzione) vengono ancora esposte, nonostante la crisi.  Ma sono pur sempre bottegai. Cioè un tempo quelli che studiavano poco, non avendone voglia e talento, e se ne vergognavano. Ora non più, visto che il non-sapere socratico rende non più filosofi ma imprenditori. Ecco allora lo smisurato orgoglio che però ben si misura nell’abbigliamento e posa d’ordinanza : ‒ jeans strappatino, scarpe da tennis livello glamour, camicettina intrigantina a manica lunga a delicati fiorellini e portata da descamisado (cioè da rapper ma danaroso), gnigno tra divertito, annoiato ed impenetrabile, da filho-da-puta (indispensabile : senza passi per fesso!), charme tenebroso e sguardo fulminante da impenitente sciupafemmine (tenuto a freno con sapienza, ma comunque occhieggiante, assassino, tra le maglie del conformato e stanco accasamento). E su tutto il brillio deslumbrante di dentature perfette. Dato che indispensabile è soprattutto il mai spento sorriso. Una volta, non più ora ! ‒ il riso abbonda…!

Ebbene l’orgoglio dell’imprenditore è possibile perché è consentito, anzi promosso. Visto che essere intellettuale ed uomo di cultura non vale più un fico secco. Essere imprenditore invece sì. Eccome.

Ma non sarà proprio perché l’ideale collettivo è divenuto proprio la crescita?. Crescita a qualunque costo ‒ dunque a spese di tutto ciò che le si oppone. Cioè ogni genere di scrupoli e di esitazione ‒ tale è la cultura, riflessiva per definizione, prima ancora che la stessa morale. Essa per definizione si sofferma. Ed invece bisogna solo andare avanti perché valore è la crescita e basta. «Show must go on!», direbbe Nietzsche se fosse un nietzschiano veramente moderno. E infatti le «imprese» (un tempo «affari») degli imprenditori prosperano proprio nonostante la crisi. Gràssano! Lo yacht brucia allegramente carburante. E la camicettina così vezzosa e fresca! Sembra una bandiera.

Un secondo segno: è l’onda lunga dell’epopea della crescita. Che giunge molto lontano, così come accadeva agli effetti remoti della Causa Prima descritta da Proclo in un Ellenismo esausto ed ormai agli sgoccioli. È l’onda lunga della fama da crescita illimitata, di cui debbono ovviamente poter godere anche i poveracci. E così quando un disgraziato muore per qualunque più o meno grave (ma comunque banale) motivo a questo mondo, la bara che esce dalla Chiesa viene accolta da un fragoroso applauso. Qualcuno mi vuole spiegare cosa diavolo mai c’entra l’applauso con la morte? C’è una sola spiegazione ‒ non è lecito vivere senza fama! Per cui almeno bisogna approfittare della morte per regalare al disgraziato il momento di fama che non ha mai avuto in vita. Giustissimamente (qui su Succedeoggi, clicca qui per leggere l’articolo) Alberto Fraccacreta ha definito il fenomeno come «spettacolarizzazione dell’io».

Un terzo segno: la crescita appunto brucia! Dovunque ci si aggiri in queste settimane di feste pre-vacanziere ‒ e di primi sostanziosi assalti nautici alle coste da parte di imprenditori ed anche poveri disgraziati in gommone e gozzetto ‒, i boschi invariabilmente bruciano. La crescita assume qui il volto della sempre maggiore nostalgia per quelle pareti verdi sormontate da una nuvola sonnacchiosa che erano un tempo la noia malinconica stessa dei piccoli luoghi dell’interno oppressi dal caldo estivo. Allora, quando i boschi ancora non bruciavano, prima della crescita. Ora invece, non si sa perché, la crescita esige gli incendi. Dolosi o meno. Se non è la mano dell’uomo ad appiccarli, è infatti la Natura stessa. Che sembra così obbedire ai must sociali ‒ tra i quali quello che impone la gloria dell’imprenditore dentro alla gloria della crescita. E così, dove un tempo c’erano eterni ed opprimenti muri verdi sormontati da cieli con un tocco di indaco, ora ci sono sempre più desolati deserti color tabacco.

Intanto però «noi, si cresce». E così noi si può essere felici. Ammesso che la crescita noi la si cavalchi. Ma agli altri resta comunque ancora il gusto di assistere allo spettacolo. In fondo cosa si vuole di più.

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