Pier Mario Fasanotti
“Il defunto odiava i pettegolezzi”

Il giallo Majakovskij

La slavista Serena Vitale ha ricostruito la morte di Vladimir Majakovskij nel 1930: un evento che sconvolse il “giovane" regime sovietico e ancora oggi è avvolto da un alone di mistero

La mattina del 14 aprile 1930 il regime sovietico temette uno scossone non da poco. Era stato trovato senza vita, nel suo studio moscovita, il grande poeta Vladimir Majakovskij. S’era ucciso con alcuni spari al cuore e giaceva a gambe divaricate a pochi centimetri dalla porta. Ma che c’entra la morte di un poeta di solida fede bolscevica, i cui versi risentivano del movimento futurista, con l’apparat politico? La principale, se non l’unica ragione, è la seguente: il cosiddetto paradiso comunista non ammetteva, e non poteva sopportare, il suicidio – atto debosciatamente borghese – in quanto veniva interpretato come protesta estrema. Insomma, un gesto di ribellione contro un sistema politico orgogliosamente e testardamente convinto di garantire a tutti la felicità e il benessere.

Il georgiano Majakovskij, era nato nel 1983 a Bagdati, città che poi fu ribattezzata col suo nome dal ’40 al ’90).  Aveva lasciato un foglietto in cui affermava: «A tutti. Se muoio, non incolpate nessuno. E, per favore, niente pettegolezzi». Singolare coincidenza (o imitazione): l’ultima frase è la stessa lasciata in un albergo di Torino dal suicida Cesare Pavese nell’agosto 1950. Strana mattina quella del 14 aprile. I poeta era alto più di 1,90: macabro ricordarlo, ma i becchini fecero molta fatica a deporlo nella bara. Non ci stavano i piedi. Era entrato nello studio di vicolo Gendrikov in compagnia della bella Veronika Polonskaja,  ballerina sposata e, pare, amante di Vladimir. Una girandola di voci all’arrivo dei funzionari sovietici, delle spie, dei giornalisti, dei curiosi.

Il defunto odiava i pettegolezziTutto questo tourbillon viene magistralmente raccontato da Serena Vitale, docente di letteratura russa, nel libro Il defunto odiava i pettegolezzi (Adelphi, 284 pagine, 19 euro). L’autrice procede, nella ricostruzione di quel dramma che rischiava di tramutarsi in un caso politico, in modo singolare, decisamente fuori dai triti canoni biografici, seguendo semmai ciò che potrebbe essere paragonato a un copione teatrale. Veronika avrebbe, sempre secondo il “si dice”, respinto il corteggiamento di Majakovskij o comunque il suo desiderio di instaurare un rapporto stabile. I movimenti della ballerina contribuirono a tingere di giallo la drammatica scelta del poeta, cantore acclamato (salvo alcune pesanti accuse nell’ultimo periodo della sua carriera: alcune giuste, altre solo dettate dall’invidia dei colleghi meno affermati) della nuova spinta bolscevica di Mosca, imperniata in un movimentismo rivoluzionario.  Veronika uscì di corsa dalla camera prima o dopo gli spari? Voci contradditorie. Sta di fatto che la ballerina venne successivamente (e non tempestivamente) interrogata dalla polizia, alla quale fornì la versione autoassolutoria. Dal momento che tra i tanti “pettegolezzi” circolava anche quello sulla presunta impotenza sessuale di Vladimir, a domanda specifica lei rispose in modo beffardo: «Direi proprio di no». Quindi amante lo era.

Ma non era l’unica donna nella giostra affettiva del poeta. C’era anche l’ambigua Lili Brik, che qualcuno aveva battezzato «la messalina sovietica», sposata al marito Osip dal presente poco chiaro. Un rapporto altalenante, ma non per questo meno intenso. Pare che il marito di Lili non si opponesse alla liaison extraconiugale, anzi. Altro mistero: uno sculture e un modellatore presero il calco del volto e delle mani del cadavere. Qualcuno, nei giorni successivi, sfilando davanti alla bara aperta noterà che Vladimir aveva il naso schiacciato: «lividure» sotto lo zigomo sinistro. Tracce di una caduta o di una colluttazione. «Ma chi lotta contro un suicida?» si chiede giustamente Serena Vitale. Tra le varie accuse contro il gigante georgiano, un rappresentante della vecchia guardia rivoluzionaria, Bela Kun, scriverà della «stupida, pusillanime» morte del poeta, «minaccioso esempio» per chi subordina alla Grande Causa i propri meschini sentimenti. Un esempio di alta sobrietà la diede invece Boris Pasternak.

vladimir majakovskij2Decisamente ridicolo un rapporto ufficiale: «…non leggeva fino in fondo i romanzi… terribile forza dello sguardo (un po’ istrionico in effetti lo era, ndr)… amava le pose monumentali, statuarie… scriveva piuttosto lentamente, con errori di ortografia… iperbolicità, esagerazione, mancanza di senso della misura… soltanto negli ultimi anni aveva imparato a ballare il fox-trot… risate come bonari ruggiti… sensibile alla più piccola offesa, alla menzogna, all’ipocrisia… voleva sempre essere certo che gli altri avessero bisogno di lui… bruschi sbalzi d’umore… una volta a Berlino si chiuse in una stanza con uno sconosciuto a giocare a carte invece di visitare la città… spesso minacciava di spararsi… non era affatto un “suicida nato”… tragicità interiore… piangeva molto… eterna solitudine interiore… lavava in continuazione le mani, apriva le porte con un fazzoletto o la falda della giacca… prima di uccidersi era in uno stato di profondo abbattimento». Un rapporto che va oltre il grottesco, comunque demolitorio. La Pravda dà la notizia della sua morte a pagina 5: «…ieri, 14 aprile, alle 10,15 del mattino, il poeta Vladimir Majakovskij si è tolto la vita nel proprio studio… le indagini preliminari dimostrano che il suicidio è stato causato da motivi di natura privata che nulla hanno a che vedere con l’attività pubblica e letteraria del poeta. Prima del suicidio, il poeta ha sofferto di una lunga e grave malattia, dalla quale non si era mai completamente ripreso». Il quotidiano farà poi cenno all’ipotesi che soffrisse di sifilide. Contrordine: l’autopsia lo negherà: «Non era affetto dalla malattia del capitalismo». Tuttavia gli esami autoptici saranno resi noti solo ai parenti e agli amici.

In uno dei circoli letterari di Mosca, qualcuno esclama: «Tanto rumore per la morte di un intellettuale». In altra sede si raccomanda: «Venga ammonito il compagno Zonin per l’articolo (apparso due giorni prima sulla Pravda, ndr) in cui cerca di dimostrare che il metodo artistico di Majakovskij è un modello per la rivoluzione proletaria». Voci e contro-voci, quindi, tutte tese a ridimensionare il valore artistico del georgiano. Altri ancora: «Vladimir è rimasto vittima della forza rapace del vecchio mondo». E, più perfidamente: «Per tutta la vita Majakovskij ha parlato con voce di basso, e all’improvviso si è risvegliato con quella di un tenore italiano (Ernani: “Compiasi il mio destino fatale…”)». Scrive Serena Vitale: “Il marito di Veronika Polonskaja viene interrogato soltanto il giorno dei funerali. Per impedirgli di prenderne parte. L’uomo, Michail M. Jansin: «Veniva spesso a casa mia… io ero molto occupato, ma non ho mai pensato a nulla di sconveniente… era il più gentleman, se così ci si può esprimere, il più affabile e premuroso degli uomini… spesso diceva che i giornali non parlavano di lui, non recensivano le sue opere… e non diceva non lamentandosi o commiserandosi, ma come un dato di fatto… poi tutto cominciò a cambiare, non saprei dire esattamente quando… sta di fatto che diventò un’altra persona… cominciò a manifestarsi in lui come un lirismo, un sentimentalismo, una insoddisfazione, a volte brontolava….».

Nel suo ultimo messaggio aggiunse questa frase «La barca dell’amore si è spezzata contro il quotidiano. La vita e io siamo pari. Inutile elencare offese, dolori, torti. Voi che restate siate felici». Citiamo da una sua bellissima poesia: «Buona permanenza al mondo». Alla faccia dei detrattori che lo consideravano come un cavallo «alla fine della corsa, un boxeur esperto, abile nello schivare i colpi dell’avversario.  Finché il silenzio avvolse l’ignobile «cavalleria delle arguzie».

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