Danilo Maestosi
Appuntamento al Vittoriano di Roma

Il Pianeta Morandi

La mostra, straordinariamente ricca, che ricostruisce l'universo di Giorgio Morandi permette al visitatore di astrarsi dalla realtà. Per entrare nella vitalità delle nature morte del grande pittore solitario

Attraverso quasi in stato d’ebrezza la bella e ricca mostra che il Vittoriano dedica fino a giugno a Giorgio Morandi(1890-1964). E mi tornano in mente due scommesse su Giorgio Morandi a una Biennale di venti anni fa, straripante di installazioni, accumuli da trovarobe, tele come maxischermi. Avrei giurato che in un contesto così chiassoso e ammalato di gigantismo uno dei tanti capolavori da camera del maestro bolognese appeso senza enfasi alla parete sarebbe scivolato via allo sguardo come un segnale improprio e malmesso. Non ho controprove dirette. Ma probabilmente sbagliavo: in ogni opera di Morandi – ho scoperto con la frequentazione e il tempo – sono compressa l’energia e l’intensità di una sorta di buco nero, una calamita che funzionerebbe comunque. Di sicuro avrei perso per questo anche la seconda scommessa: che per attirar l’attenzione in una scena così votata alla moltiplicazione un’immagine da sola di Morandi non sarebbe bastata si sarebbe dovuto allinearne una lunga sequenza.

giorgio morandi2È quello che per limite di spazi rischia di succedere alla mostra del Vittoriano: troppi quadri, oltre un centinaio – cifra che dà contorni da record a questa rivisitazione – tutti molto piccoli e uno accanto all’altro con minime varianti di colori e di tema, finiscono per generare ubriachezza, saturazione. E invece il piacere che la pittura di Giorgio Morandi ci riserva, la chiave del successo internazionale che nonostante la sua vita e la sua carriera appartata lo ha incoronato nel Pantheon del Novecento, si fonda su un senso di complicità più lucido e consapevole. Specie di fronte alle nature morte, quegli interni di cimeli in fila su un banco, di cui la mostra del Vittoriano offre un campionario davvero sfaccettato e completo, dopo un breve prologo riservato alle sue brevi simpatie per il futurismo, il cubismo e la metafisica.

Ogni suo quadro, almeno i più riusciti – che sono tanti – è un mondo a se, appartato, autosufficiente che si trascina appresso un proprio spazio, unico ,diverso da tutti gli altri, che non imita il reale ma gli offre forma. E in questo spazio condensa, cattura in mille sfumature diverse gli echi impalpabili del tempo che scorre, della luce che imprigiona le linee o le fa svaporare, che inventa e sconfessa geometrie, che genera a volte ombre e a volte fa dell’ombra stessa il riflesso, la profezia di un’altra figura. E a noi che la osserviamo il privilegio di abitarla questa casa di mistero e secondi rappresi, magari riconoscerla nostra, se non si lasciamo trascinare dalla fretta e ci abbandoniamo invece a quella nebbia di colori opachi, quei bianchi lattescenti, quegli ocra che addensano l’aria, quei lampi di rosso e di nero che ,bordano, spesso deformano, la presenza degli oggetti lì in posa come fantasmi, visioni irripetibili. Un mondo a se che fa il vuoto attorno, si appropria di una parete, ci si isola, le respira dentro. Poco importa che un’altra tela affianco proponga quasi le stesse immagini, altre ciotole, altre scatole, altri colli di bottiglia. Sono finestre su altri mondi paralleli, a loro volta autosufficienti.

giorgio morandi3Anche se, certamente obbligare queste icone a un condominio forzato e ravvicinato distrae, toglie raccoglimento, a volte ti toglie la voglia di abitarci, fa appunto l’effetto di una sbronza. Ogni esposizione, ogni museo genera inesorabilmente le sue sindromi di Stendhal.

Probabile che lo stesso Morandi ne sia rimasto vittima. Come di un effetto collaterale di sovraesposizione che magari gli ha dettato questa confessione: «Credo che nulla possa essere più astratto di quello che effettivamente vediamo. Sappiamo che tutto quello che riusciamo a vedere del mondo oggettivo, come esseri umani, in realtà non esiste così come noi lo vediamo e lo percepiamo». O forse ha ispirato quell’autoritratto datato 1924 che chiude il percorso del primo piano. Una rarità, come del resto le opere, una trentina, in cui si cimenta con la figura umana. Morandi ne dipinse solo altri sei, prima di abbandonare per sempre il soggetto.

giorgio morandi autoritrattoQui si ritrae allo specchio all’età di 34 anni, una camicia bianca scollata, un gilet nero, la tavolozza in mano, le labbra corrucciate.Le pennellate e le velature rivelano l’attenzione di un pittore che ha a lungo studiato la lezione di altri maestri dell’autoritratto. Ma la gamma cromatica, quelle tonalità sommesse, l’impianto stesso dei volumi ricorda quello delle sue nature morte. Anche lui in posa come le sue bottiglie. La cosa che ci colpisce di più è l’indeterminazione del suo sguardo, occhi appena accennati, che non riflettono luce, stentano a mettere a fuoco. Non vedono o non vogliono vedere quello che stanno vedendo. Una fuga da un’epoca che non doveva probabilmente piacergli e a cui chiuse la porta in faccia: unica realtà sopportabile l’irrealtà astratta del suo studio in cui si è volontariamente confinato, dimenticando la prima guerra mondiale cui aveva partecipato rischiando la vita, la presenza del fascismo, l’avventura disastrosa della seconda guerra mondiale che traspare solo dalla cupezza della sua tavolozza, e tutti gli altrove sgraditi da cui si è chiamato fuori.

Inseguendo il mistero di una sua altra realtà, distillata con occhi da pittore, anche nei paesaggi, dove sembra non abbandonarsi mai al piacere della vista, alla fisicità del sole, del cielo, dell’orizzonte ma solo allo studio di superfici dai colori sfocati, quasi volesse tenere a distanza e a bassa voce la natura stessa.

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