Paolo Ranfagni
La lotta intorno al futuro dell'Unione

La commedia dell’euro

La recita che vede per protagonisti Tsipras, Merkel e Schäuble in realtà nasconde un problema molto più serio di quel che sembra: la crisi della democrazia europea

L’ombra lunga del fallimento sta cominciando davvero a calare sul Partenone? E la Grecia sarà presto costretta ad abbandonare la compagnia dell’euro e della stessa Unione europea? È improbabile una drammatica conclusione del logorante braccio di ferro, più mediatico che politico, intrapreso da Alexis Tsipras con le istituzioni europee. Un epilogo di questo genere non si capisce bene a chi potrebbe convenire: non alla Grecia, che si vedrebbe precipitare nella tragedia di un default senza ritorno, né tanto meno a Tsipras, il cui obiettivo dichiarato è quello di migliorare e non peggiorare le condizioni già assai critiche della popolazione; ma anche la stessa Europa in questo frangente di tutto avverte il bisogno tranne che di una nuova crisi finanziaria, come quella che inevitabilmente si aprirebbe. Certo, la Grecia resta un “piccolo Paese” e le turbolenze potrebbero essere contenute, ma nessuno oggi pare in grado di prevederne fino in fondo tutte le possibili conseguenze. Non a caso l’economista francese Jean-Paul Fitoussi si dice convinto che «alla fine il buon senso prevarrà e il governo tedesco darà l’input decisivo per raggiungere un accordo».

Fortunatamente non siamo alla tragedia, ma solo alla commedia, che Tsipras recita a soggetto per il pubblico ateniese, con l’obiettivo di attenuare la crescente delusione popolare di fronte all’impossibilità di mantenere tutte le promesse di una campagna elettorale d’assalto; e che i falchi dell’ortodossia indirizzano ai rispettivi elettori, che non hanno nessuna intenzione di pagare alla Grecia i danni provocati da una gestione finanziaria allegramente incosciente. Populismo a piene mani dunque, in cui tutti guardano a casa loro e nessuno all’Europa.

Certo ci dovremo abituare ad assistere ancora al rovesciamento di diversi tavoli. La Germania con Schäublecontinuerà ad agitare lo spauracchio dell’«addio della Grecia alla moneta unica» e la Francia con Moscovici risponderà che sarebbe «l’inizio della fine» per l’euro. Tsipras, dal canto suo, va oltre e minaccia addirittura il sequestro dei beni tedeschi in Grecia, a risarcimento dei danni di guerra dei nazisti: un’arma tutt’altro che letale, che sarebbe stata agitata già nel 2000, quando sembrava che Berlino avesse intenzione di bloccare l’ingresso della Grecia nell’euro. Poi l’ok arrivò, la Grecia fu accolta nel club della moneta unica e nessuno ne parlò più. Chissà che anche questa volta non venga riproposto il vecchio canovaccio.

Ma Fitoussi, dopo aver in qualche modo tranquillizzato sul futuro della Grecia in Europa e nell’euro, va oltre e si dice convinto che la strategia politica di rottura di Tsipras possa offrire l’occasione «per riflettere sui gap di democrazia in Europa». E questo è tutto un altro discorso.

Che la democrazia non se la passi troppo bene sotto il cielo di Eurolandia non è certo una novità. Come non lo è la scarsissima attenzione che a questo problema dedicano un po’ tutti i leader europei. Del resto la preoccupazione prioritaria dello stesso Tsipras oggi, più che a un’improbabile rilancio della democrazia europea, pare puntare alla possibilità di strappare condizioni un po’ meno draconiane da offrire ai suoi sfortunati cittadini.

Resta il fatto che quello della democrazia è davvero un nervo scoperto, soprattutto in Grecia, almeno dal 2011, da quando l’allora premier George Papandreou, di fronte al piano di salvataggio di lacrime e sangue appena presentatogli dall’Europa, prima annunciò che avrebbe dato la parola al popolo con la convocazione di un referendum consultivo e poi fu costretto a un rapido dietro-front, provocato dalla minaccia conseguente della sospensione immediata degli aiuti europei. Il leader socialista, che appena eletto si era preso la responsabilità di dichiarare al Paese il rischio di bancarotta, dovette poi cedere al ricatto europeo, per poi rassegnare le dimissioni.

Quello fu il giorno più nero per la democrazia europea e da allora i greci non si fidano più dell’Europa, né tanto meno della Troika. Né si fidano più del Pasok e di Nuova Democrazia, i due partiti, l’uno di sinistra e l’altro di destra, che si sono alternati al potere per poi arrivare a formare il governo di unità nazionale, cedendo a tutte le condizioni imposte dall’Europa e dalla Troika. Non c’è dunque da stupirsi se i cittadini greci, ai quali purtroppo in quell’occasione non fu consentito esprimersi, hanno poi sancito la vittoria di Tsipras.

Bisogna però anche ricordare che, nella crisi greca, nessuno è senza colpe, a partire dalla Grecia che senz’altro ha le responsabilità più gravi. All’inizio del secolo, il Paese si presentava come una delle economie più in forma dell’eurozona, ma, per rientrare nei parametri di Maastricht ed entrare nell’euro dalla porta principale, aveva truccato le carte, nella fiducia che le buone performance della sua economia avrebbero presto consentito di far rientrare il debito pubblico nel limite del 3%, previsto dal Trattato. Così non è stato: un’evasione fiscale di enormi dimensioni, il pubblico impiego superaffollato e inefficiente, il “buco” clamoroso generato dalle Olimpiadi e infine la crisi del debito sovrano europeo s’incaricarono di mostrare al mondo come il re fosse nudo.

L’Unione europea non era da meno: aveva costruito una moneta unica senza unificare le politiche economiche e fiscali dei paesi membri, chiudendo per di più entrambi gli occhi sull’assenza dei requisiti necessari da parte della Grecia; né, una volta fatta la frittata, si era posta il problema se gli aiuti finanziari indispensabili a scongiurare il default e ad assicurare la tenuta della moneta fossero realisticamente sopportabili dalla popolazione. La cura era destinata a uccidere il paziente.

merkel schaeubleEppure la maggioranza degli osservatori economici aveva sollevato da subito più di un dubbio sul fatto che un paese come la Grecia, se pur di piccole dimensioni, potesse tollerare una dose così massiccia di licenziamenti, tagli drastici delle pensioni, prosciugamento delle risorse, senza alcuna certezza che, alla fine, dietro l’angolo non ci fosse comunque il fallimento, con l’uscita dall’euro e dall’Unione.

Quello che oggi è certo è che non esiste più una strada da imboccare per fare marcia indietro verso un passato morto e sepolto e abbandonare l’euro. Le conseguenze sulla popolazione, già sopportate al limite estremo, sarebbero sicuramente assai più pesanti anche di quelle attuali. Ma non si può neppure proseguire così, lottando ogni volta disperatamente per strappare una dilazione irrisoria dei pagamenti.

I cittadini greci si sono espressi chiaramente con il voto, scegliendo Syriza e non Alba Dorada. Ma se anche Tsipras dovesse fallire, la prossima volta a chi toccherà? O, peggio, ci sarà una prossima volta? La priorità dell’Unione dovrebbe quindi essere quella di aiutare Tsipras a salvare la Grecia, convincendolo magari a rivedere le troppe promesse elettorali, ma consentendogli comunque di tornare ad Atene con la dignità del “vincitore”, nell’interesse non della democrazia di un “piccolo Paese”, ma di quella dell’Europa intera. Purtroppo quella odierna è solo una piccola Europa finanziaria, in cui sono sempre i vecchi stati nazionali a prevalere, sulla base dei singoli interessi e non di una strategia comune europea. L’Europa è finita ormai in un cul-de-sac. Invece, per conseguire questo risultato, servirebbe un’Unione vera, una grande Europa, non quel piccolo comitato di salute pubblica gestito dai falchi accidiosi del Nord, che non riesce neppure a riconoscere i pericoli concreti che cominciano a profilarsi da un Sud abbandonato al suo destino, mentre questa Europa azzoppata e con il torcicollo, per il troppo guardare a Nord-Est, non riesce neppure a riconoscere la propria storia.

Non è la prima volta che viene agitato il problema della democrazia europea, ma bisogna avere la consapevolezza che oggi siamo di fronte all’incrocio più pericoloso. Ha ragione Fitoussi: non si tratta solo di salvare la Grecia, ma di rilanciare la democrazia europea. Le recenti elezioni europee hanno lanciato un segnale che sarebbe colpevole lasciar cadere. Guai se l’accordo con la Grecia dovesse limitarsi al tradizionale compromesso di piccolo cabotaggio. Serve un segnale nuovo, ma bisognerebbe resuscitare quel coraggio, che nel passato l’Europa ha saputo sempre trovare per superare le grandi crisi. Guai a pensare che questa volta siano in gioco soltanto le sorti di un “piccolo Paese”: sarebbe la via sicura per provocare una crisi gravissima.

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