Paolo Petroni
La Maratona dell'Argentina

Il vulcano Roma

Ventiquattro autori raccontano (bene) una città in crisi di identità e di sogni. Ecco il “RItratto di una capitale” di Antonio Calbi e Fabrizio Arcuri: uno spettacolo caleidoscopio che riflette poeticamente le contraddizioni di una metropoli

Il teatro è il luogo in cui si specchia la parte nera di una società. Anche quando la butta in commedia, in fondo ne vengono fuori i difetti, le idiosincrasie, le inettitudini. Non può stupire allora che l’immagine di Roma che esce dai ventiquattro atti unici del Ritratto di una capitale commissionato da Antonio Calbi, direttore del Teatro di Roma, a altrettanti autori e andati in scena nei giorni scorsi, con una maratona conclusiva di 12 ore sempre piena di gente, ci mostri violenza, emarginazione, disagio, tra ospedali, centri Sert, stazioni della Metro, vie consolari o ponti e sponde del Tevere.

Naturalmente ci sono anche pezzi più elegiaci e leggeri, venati in genere di nostalgia per una città che è cambiata e in cui è diventato difficile, come accadeva un tempo, ascoltare di giorno parlare le fontane e di notte le statue, come ricorda Franca Valeri, che vorrebbe ridare a Roma, Insaziabile imperatrice, il suo splendore sgravandola del fardello di fare da capitale di un paese piccolo borghese e dalla cattiva politica. Torna Eleonora Danco per le vie di San Lorenzo a vent’anni di distanza, per misurare i propri ricordi, le braci della propria vita, con il mutare e il tradimento dei posti Squartierati, e torna Lidia Ravera per Ritrovarsi in città, nei vicoli di Trastevere dove aveva abitato negli anni Settanta, quando il quartiere era un piccolo paese, quasi un appartamento di cui tutti si sentivano proprietari di angoli, piazze e fontane, e incontra il fantasma della se stessa di allora (Silvia D’Amico e Maddalena Crippa), ma che fa i conti col tempo passato, col tempo che passa nella città che, in fondo, rimane sempre se stessa.

Antonio calbi franca valeriI 24 pezzi sono ovviamente molto diversi anche per qualità e resa, sebbene vi sia un’ottima regia unificante attraverso l’uso degli spazi di Fabrizio Arcuri, che sfrutta bene il set virtuale, ricco di proiezioni anche fascinose e simboliche, di Luca Brinchi, Roberta Zanardo/Santasangre e Daniele Spanò. Così ecco un ottimo, multiforme Leo Gullotta che, pescando in riva al Tevere, gioca con parrucche e personaggi emarginati, passando dal calabrese all’italo-americano, ma alle prese con un testo di Francesco Suriano, Elegia per due sconosciuti, che non riesce a essere incisivo o emblematico e si perde nel colore e in una storia troppo complessa che vorrebbe rimandare al mito di Castore e Polluce. Ma poi anche un superbo, delicato, incisivo Roma Est testo di Roberto Scarpetti (vera rivelazione di questa stagione, dopo essere appena stato all’India col suo Viva l’Italia) capace di giocare su due diversissimi registri linguistici, ma anche di renderli complementari e capaci di illuminarsi a vicenda: quello poetico, icastico, vitale e sentimentale di una vittima extracomunitaria e quello della violenza e dell’aggressività, dell’incapacità di far attenzione a se stessi e agli altri di chi solo nella negazione e il confronto trova qualche briciola di impossibile identità. Ai due personaggi, la giovane rumena e il suo antagonista, più un militare di passaggio, riescono a dare la delicatezza e la necessaria sostanza, morbidezza e esasperata ruvidezza, la verità insomma, Lucia Mascino, Fabrizio Parenti e Josfat Vagni.

E poi c’è il romano, la lingua romanesca, evidentemente carattere e radice forte di identità cittadina e personale, che torna in moltissimi pezzi, anche quelli di un piemontese come Fausto Paravidino che mette in scena, per mostrarci caratteri esemplari di Roma, un incidente automobilistico con un romanaccio andato contro un palo, una ragazza rimasta incastrata nella macchina e un passante che si ferma per cercare di aiutarli e verrà coinvolto dalla loro istintiva ciarlataneria e voglia di piacere, ma protestando sempre, interpretati dalla Mascino (non sempre a suo agio col dialetto) Pieraldo Girotto e Filippo nigro.

Difficile raccontarli tutti i 24 atti unici, gli spaccati di Roma tra giorno e notte, ma merita una parola la tranche de vie Crossroads di Letizia Russo con vari personaggi (cui danno vitalità Donatella Attili, Daniele Amendola, Elodie Treccani e Paolo Zuccari), ognuno col proprio segreto e difficoltà di vivere nel quartiere attorno a Rebibbia, che si inizia e si interrompe improvviso, a indicare una continuità, una vita tenera e difficile assieme, che così’ continua sempre  a scorrere. Poi c’è l’ironico, doloroso scontro tra cultura e violenza messo in atto con una parabola paradossale, un monologo in continuo tentativo di spiegazione di un uomo picchiato perché leggeva un libro a Ponte Sisto da un branco di ragazzotti ne Il film sbagliato di Tommaso Pincio. Scontro egualmente notturno, in una sala d’attesa dell’ospedale Santo Spirito, quello inscenato da Valerio Magrelli in Quando si fa l’alba, meno aspro e più paradossale, ma nato da non minori distanze culturali, quello tra il candore partecipe di un’anziana signora (perfetta Milena Vukotic) che, davanti al malessere di un tossico che attende il metadone (cui dà verità e verismo Lorenzo Lavia), cerca di capre interrogandolo sul perché si buchi, quando e come abbia cominciato e perché non smetta.

La città multietnica ritorna anche di continuo, simbolo di cambiamento e di necessità di dialogo, non facile, come ce la presenta la Piazza Vittorio di Mas non chiude mai di Lorenzo Pavolini o il condominio del Pigneto di Schiuma di Igiaba Scego o la Via merulana di Orfanelli di Eraldo Affinati, in cui si incontrano un anziano pensionato e il giovane africano khaliq, tanto diversi eppure tanto simili.

Un mosaico di ore, situazioni, luoghi, reali e ideali, simbolici e agganciati alla cronaca, tra memoria e presente, tra romanesco e italiano, tra disagio, sofferenza e voglia di vivere che si snoda di tessera in tessera per fondersi, potremmo dire, nel magma delle due donne reduci da una processione ai Castelli messo in scena da Ricci/Forte. Perché una città è sempre in movimento, sobbolle e ogni tanto erutta come un vulcano, sulle note cupe e rimbombanti dei Mokadelik, colonna sonora di questo Ritratto.

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