Laura Novelli
Visto alle Vie dei festival

Eduardo in nero

Francesco Saponaro ha tinto di assurdo pirandelliano due farse di Eduardo: «Dolore sotto chiave» e «Pericolosamente». Una chiave perfetta per aggiornare un maestro. Grazie anche a tre ottimi attori: Tony Laudadio, Luciano Saltarelli e Giampiero Schiano

Prende avvio a sipario chiuso, nel buio di un proscenio/cimitero dove la voce di un becchino, impastata di un forte dialetto napoletano, ce la dice lunga sulla reale essenza della morte. Per il suo riuscito Dolore sotto chiave di Eduardo De Filippo, il regista Francesco Saponaro sceglie un prologo firmato Luigi Pirandello e, riunendo in un unico corpo testi diversi, confeziona coraggiosamente un lavoro originale, coeso, tagliente, che attraversa il pensiero di entrambi gli autori e ne accosta le rispettive visioni esistenziali, qui particolarmente inclini a toni arguti, sagaci, amaramente ironici.

Adattata alla lingua partenopea e alla forte espressività di Giampiero Schiano, la novella I pensionati della memoria del drammaturgo siciliano (con il quale come è noto De Filippo collaborò negli anni Trenta in occasione delle versioni napoletane di Liolà e de Il berretto a sonagli, oltre che per la trasposizione scenica della novella L’abito nuovo), diventa dunque il prologo di una doppia intrusione nel repertorio “minore” di Eduardo. Intrusione rappresentata dal radiodramma del titolo (scritto nel ’58) e dal più farsesco atto unico Pericolosamente (composto vent’anni prima) che, sfiorando entrambi situazioni ai limiti del teatro dell’assurdo, non fanno che dipanare l’assunto implicito nella breve introduzione pirandelliana. E cioè che la morte, così come la vita, è solo una folle illusione e che essa, per quanto ci riguarda, inizia ben al di qua del trapasso vero e proprio: inizia quando gli “altri” si dimenticano di noi, quando non ci amano più, quando i sentimenti autentici vacillano sotto il peso di quelle ipocrisie, di quelle falsità, di quegli inganni, di quel perbenismo sociale entro cui ci dibattiamo tutti come pazzi pur di sopravvivere e di sembrare persone “decorose”.

Lo spettacolo, già visto al Piccolo di Milano e proposto nei giorni scorsi al Vascello di Roma nell’ambito della rassegna Le vie dei festival (mentre a marzo prossimo sarà a Ravenna, Barcellona e Napoli), si muove tra semplicità formale ed efficaci salti di registro espressivo. Tramontato il progetto originario di collaborazione con la compagnia Carullo-Minasi, Francesco Saponaro ci regala un lavoro che si inserisce a pieno nella migliore tradizione di Teatri Uniti: regia limpida, ottima interpretazione, scenografia essenziale e simbolica, pochi ma incisivi intarsi musicali, grande attenzione alle parole e alla mimica. È infatti grazie soprattutto agli ottimi interpreti, Tony Laudadio, Luciano Saltarelli (chiamato ad una non facile prova en travesti) e Giampiero Schiano, che l’arguzia di ragionamento e la sagacia insite nelle pagine eduardiane prendono vita.

dolore sotto chiave3Nel primo atto unico, i rapporti di forza tra i fratelli Rocco (Laudadio, qui quanto mai naturale, credibile, incisivo, comicamente tragico) e Lucia Capasso (ruolo del quale Saltarelli rivela con estrema bravura gli aspetti grottescamente patologici, ambigui ed inquietanti), posseggono il sapore acre delle contorsioni familiari più subdole e più comuni, e traducono in un ricatto morbosamente iniquo la competizione, la cattiveria, il rancore sottesi a tante relazioni affettive. Lo sguardo sghembo dell’autore – ed è qui la sua insuperata genialità – accarezza però con magnanime ironia i paradossi della vita e si limita a mostrarci la sottigliezza feroce con cui la donna (curva, quasi claudicante, tutta rappresa in una mimica facciale sovraesposta) per mesi nasconde al fratello la morte di sua moglie (lasciandogli intendere che quest’ultima sia ancora chiusa in una stanza per lui off-limits e che sia moribonda e bisognosa di continua assistenza) e la disperazione contraddittoria dell’apparente vittima: vedovo esautorato dal diritto di godersi «un dolore che sarebbe stato solo mio» ma, a sua volta, fedifrago scisso tra la recita del marito a lutto e i sentimenti d’amore per un’altra donna frequentata proprio nei mesi della presunta agonia della consorte. Eppure, quando la situazione esplode, tale esplosione non comporta giudizi morali. Semmai semplicemente la “scandalosa” conferma che anche dietro al dolore (o all’amore) si annidano ambiguità indecifrabili: liberato dal peso della moglie malata, messa al bando l’idea di spararsi un colpo di pistola, Rocco sembra tuttavia voler rinunciare anche alla nuova amante, ed esce di scena (dove troviamo solo due porte che sembrano casse da morto, un tavolino e qualche sedia) mentre il telefono squilla. Mentre la vita cioè di nuovo vacilla. E noi con lei.

pericolosamenteDi tutt’altro clima narrativo è la farsa Pericolosamente, che si inquadra nella produzione del Teatro Umoristico dei fratelli De Filippo e che all’apparenza potrebbe sembrare poco più di uno sketch in odore di avanspettacolo e di pochade ottocentesca imbastito sul classico topos del litigio coniugale. A ben vedere però anche la relazione malata tra l’isterica Dorotea (un esilarante Saltarelli, qui libero di vivaci esasperazioni macchiettistiche) e il compassato Arturo (ancora l’ottimo Laudadio) è un gioco al massacro sospeso tra la vita e la morte: unico rimedio ai repentini cambiamenti di umore della moglie sono infatti gli spari di una pistola (oggetto-feticcio usato anche come trait d’union tra i due atti) che il coniuge porta sempre con sé. Spari a salve, ovviamente, tranne uno. Ed è proprio in questa eccezione, in questa possibilità remota di omicidio che il meccanismo perverso eduardiano (lontano anni luce da ogni possibile riferimento ai tremendi casi di uxoricidio attuali) assume le sfumature noir di un thriller psicologico – di cui è impaurito testimone un amico dell’uomo (l’efficace Schiano) – capace non solo di evocare con sublime ironia una malcelata critica al matrimonio o all’emancipazione femminile, ma anche e soprattutto di riportarci al punto di partenza: a quel sentimento della morte così vacuo, così disilluso, così filosofico, eppure così straziante, dell’incipit.

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