Gianni Cerasuolo
A proposito di «Dura solo un attimo la gloria»

La rabbia di Zoff

«Sono un operaio specializzato che, con passione e serietà, tutti i giorni della propria vita ha timbrato il cartellino». Nella sua (bella) autobiografia, Dino Zoff vuota il sacco

La meglio anzianità. Dino Zoff, 72 anni lo scorso febbraio, da Mariano del Friuli, fa parte di quel gruppo di padri della patria (calcistica, d’accordo, ma la precisazione è un pochino restrittiva) ormai dimenticati in questo troppo lungo tempo di ciarlatani e mascalzoni (e qui davvero il calcio non c’entra), un grandissimo in campo, una persona perbene, uno che non è sceso a compromessi. Infatti, da oltre quindici anni non fa nulla, gioca a golf e con i nipoti, nessuno lo ha più chiamato neanche per una poltrona di rappresentanza che non si nega a nessuno, neanche per tenerlo in uno studio televisivo a descrivere un gol o una parata. Niente di niente.

Alla gens calcistica (e non solo a quella) stanno bene i Tavecchio e i Lotito, burattini e burattinai, rappresentanti ideali di questo spicchio di Paese. Lui è un corpo estraneo, non va bene al sistema. Una volta, il presidente della Lazio, Gianmarco Calleri gli chiese di non far giocare Pedro Troglio, un centrocampista argentino che stava creando problemi alla società per il contratto e per alcuni sgarbi. La risposta di Zoff, allenatore dei biancocelesti, fu: «È un mio giocatore… e come tutti i miei giocatori, se si allena bene, va in campo la domenica».

zoff1Non è il caso di erigere ancora un monumento. Di gonfiare una leggenda che conta già tanta gloria (tra i pali). Né tantomeno di dipingerlo come un rivoluzionario, un ribelle (in panchina o dietro una scrivania come dirigente). Qualche riflessione però la merita dopo aver letto e meditato su un suo libro. Perché poi Zoff, che ha vinto tanto da calciatore, un titolo mondiale e un titolo europeo, non so quanti scudetti con la Juve ma mai la Coppa dei Campioni, anzi dopo quel tiro di Magath nella finale di Atene dell’83, che tanta goduria procura ancora a mezza Italia, decise che era venuto il momento di smettere, aveva 41 anni; ebbene Zoff da allenatore ha raccolto poco, una Coppa Italia e una Coppa Uefa lo stesso anno per la Juve; le sue squadre non piacevano, troppo legate ad un gioco tradizionale, all’italiana, spazzate via dal vento nuovo del sacchismo e dei suoi maldestri epigoni (lui si difende dicendo che c’è stato molto pregiudizio nei suo confronti soprattutto da parte della stampa che lo ha dipinto come «un tradizionalista, uno superato»). Certo ha vinto meno di un Trapattoni, di un Capello o di un Lippi. E poi c’era lui, l’uomo con un carattere difficile, con quei suoi mormorii incomprensibili, sempre poche parole, spesso cupo. Noioso, a volte. Eppure di cose ne aveva da dire.

E un po’ monotono mi era sembrato questo Dura solo un attimo la gloria. La mia vita (Mondadori, 167 pagine, 17,00 euro) firmato proprio dal portierone, da Dino Zoff (non ce ne fossero abbastanza di scriba, si resta spesso perplessi di fronte agli improvvisati scrittori, certamente aiutati da scrittori ombra, da ghostwriter, del resto anche in questo caso basta leggere i ringraziamenti in fondo al libro per capire: ma poi ha importanza sapere chi ha messo in bella i pensieri dell’anima?). Il padre Mario, la madre Anna, le uova della nonna Adelaide, “austriaca” severa e giusta, una famiglia friulana e contadina, una casa dove entravano Famiglia cristiana e nel fine settimana l’Unità; e poi la vocazione del “portierino”, un «ruolo poco divertente», l’ingaggio dell’Udinese per 550 mila lire. Correvano gli inizi degli anni Sessanta. Insomma l’autobiografia che ti aspetti da un tipo tranquillo come Zoff. Anche la commozione che prende quando ricorda Gaetano Scirea e il rimorso di averlo mandato una seconda volta in Polonia – su insistenza di Boniperti – a visionare una squadra avversaria di Coppa che l’ex libero della nazionale e della Juve, allora vice dell’allenatore Zoff, aveva già visto: ma il rapporto non aveva soddisfatto il vecchio manager bianconero. E la seconda volta Gaetano trovò quella morte assurda nel rogo dell’auto su cui viaggiava. Uno si aspetta dei retroscena quando parla dell’Avvocato, di Gianni Agnelli. Ma Zoff è fedele all’insegnamento del padre e a se stesso: chi tanto parla, poco sa. C’è una battuta non male, però, di quelle che il magnate della Fiat era solito fare. Zoff si era ritirato da un anno circa e al suo posto era arrivato Stefano Tacconi, il quale dopo un buon esordio, cominciò ad accusare un calo di rendimento, soprattutto dopo che il friulano era passato ad allenare la nazionale olimpica. Tacconi continuava a ripetere che «gli mancava Zoff». Un giorno lo disse anche ad Agnelli. E quello rapido e cattivo ribatté: «Sapesse quanto manca a noi…».

Pure ci sono, nella prima parte del libro, spunti inaspettati: l’amicizia con Nini Rosso, il trombettista in cima alle hit parade anni Sessanta con Il silenzio, ottimo musicista, e quella con Francesco De Gregori, l’ammirazione per Francesco Guccini, il “poeta” «quello che più di ogni altro mi rappresenta». E, più avanti, quel bacio sulla guancia di Enzo Bearzot, la notte del Mundial. Dove lui e Scirea, dopo brevi bevute, dopo Pertini, preferirono ritirarsi ad un certo punto in camera e mettersi a parlare. E a fumare.

Zoff2All’improvviso però c’è un cambio di passo nella narrazione. Quando Dino Zoff si issa con tutta la sua collera sui ricordi più recenti di un uomo e professionista umiliato e offeso: non urla, Zoff, non è il tipo ma spiega le sue ragioni, si indigna, accusa. Già quando parla del suo allontanamento dalla Juve, l’Avvocato che lo chiama sulla colline piemontesi, era il gennaio del 1990: «Zoff, vogliamo cambiare le cose, svecchiare l’ambiente». L’allenatore è sottoposto da mesi al bombardamento di giornali e tv, non piace, si vuole altro calcio. Zoff sostiene che probabilmente la mossa fu ispirata da Luca di Montezemolo, arrivato da poco in società. Sulla panchina bianconera finirà Gigi Maifredi e il calcio champagne: «Io trovavo la formula sinistra. Comprarono Baggio e fecero molti altri investimenti. Ciononostante finì tutto a carte quarantotto. Invece di controllare i miei numeri sulla carta… andarono dietro al vento fresco dei media, e quell’anno, dopo venticinque anni, la Juventus non vinse niente. Avevano messo da parte un buon barolo d’annata, per un cartone di champagne modesto. E ne fecero le spese».

È un crescendo di amarezza e delusione. Anzi, una testimonianza civile. È un altro Zoff quello che leggiamo da un certo punto in poi. Perlomeno è uno Zoff poco conosciuto ai più. Non tanto nello sfogo verso Berlusconi, dopo la mancata vittoria agli Europei del 2000, sfumata per quel pari di Wiltord a venti secondi dalla fine dei tempi regolamentari («Venti secondi. Il trionfo era lì davanti, a venti secondi di distanza. Bastava allungare una mano e si poteva toccare… su un rinvio del portiere, in un attimo, è andato tutto a puttane».) e seppellita dal golden goal di Trezeguet nei supplementari. Ma quanto in quello che scrive sulle conseguenze di quel gesto di rottura, le dimissioni da commissario tecnico della nazionale, l’isolamento, dopo le feroci critiche dell’uomo della Provvidenza di Arcore: «Zoff è stato indegno, si è comportato come l’ultimo dei dilettanti… Zidane sempre libero…». Così reagisce adesso l’ex ct: «Quel gesto, così eclatante, fu il mio personale urlo contro l’ambiente, contro il sistema. E come tale venne percepito. Io, Dino Zoff, il taciturno, il silenzioso, rompevo gli schemi…». E più avanti: «Sono un operaio specializzato che, con passione e serietà, tutti i giorni della propria vita ha timbrato il cartellino. Undici campionati giocati di fila, mai un raffreddore, mai un infortunio. Anni e anni di panchina ad assumermi responsabilità e a metabolizzare insulti. Sempre al mio posto, a qualunque condizione. Se davvero sono stato un monumento, come qualcuno ancora dice, sono stato un monumento ai lavoratori. Questa è stata la mia minuscola grandezza, la mia vita, la mia dignità». Non gliel’hanno perdonato, quel gesto. Il suo mondo si è schierato, pavido e codino. «Quello che in gergo chiamiamo l’”ambiente” – si sfoga – è pronto a perdonare qualsiasi reato, colpa o vizio, a patto, però, che tutto rimanga “all’interno”, che tutto venga processato e “metabolizzato” dai suoi “organi interni”. Puoi corrompere arbitri, vendere partite, insultare, picchiare, commettere qualunque nefandezza, ma finché ti dimostrerai pronto a restare all’interno del sistema, finché sarai disposto a celebrare i suoi riti. Allora potrai contare sull’assoluzione, o, sulla clemenza della corte. E un posto per te, da qualche parte, in qualche commissione, in qualche anfratto della macchina burocratica che tutto sostiene, si troverà sempre. Appena, però, qualcuno rompe lo schema e si ribella, fosse solo per difendere la propria dignità, allora viene rapidamente espulso, e con violenza. La violenza stupida e involontaria degli automi».

zoff4Zoff è diventato dunque inaffidabile. La parabola della sua carriera non si è conclusa, è stata interrotta. «Che se ne fanno di uno come me?». L’onda di sconforto sale fino al punto di dire che, quel conflitto con Berlusconi, c’entra fino ad un certo punto. «C’era un problema, come dire, antropologico, culturale alla base della mia “espulsione” dal mondo del calcio. Me ne sono accorto tardi…». Si arriva all’esplosione finale: «La verità è che, alla fine della mia storia, io la mia Partita l’ho giocata e l’ho persa… La verità è che ho vinto qualche coppa, ho battuto molti record, ma non ho lasciato il segno, e il tempo si porterà via tutto, come una folata di vento in autunno spazza le foglie del parchetto sotto casa, dove adesso gioco a palla con mio nipote».

Verrebbe da dirgli una bugia: no, caro Zoff, tra molti anni, quando non ci sarà più, tutti la rimpiangeranno e si ricorderanno di lei. Anzi, questo libro che ha scritto, verrà distribuito nelle Scuole calcio ai ragazzini, così impareranno a vivere oltre che a tirare calci o a parare un rigore. Capiranno anche che dura solo un attimo, la gloria. Lo so che la cosa la fa arrabbiare di più. Lei lo dice di Scirea: tutti a lodarlo da morto, che senso ha? Forse è meglio il silenzio in questo mondo del chiasso e del mostrarsi. Il pudore delle parole, lo chiama, quel filo che si è srotolato lungo tutta la sua bella vita.

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