Lorena Piras
Visita in una prigione abbandondata

Memorie del carcere

Chiuso da otto mesi, il penitenziario sassarese di San Sebastiano è stato riaperto per un giorno, grazie al Fai. Un luogo congelato nel dolore dei suoi centocinquanta anni di isolamento

Carcere. Manifestazione del dualismo antitetico tra buoni e cattivi, dentro e fuori, inclusi ed esclusi. E se è vero che «i luoghi hanno memoria. Ricordano tutto. Il ricordo è inciso nella pietra. È più profondo delle acque più profonde. È come sabbia delle dune, che si sposta di continuo», come scrive Wim Wenders in Places-Luoghi, le pietre, le mura del carcere sassarese di San Sebastiano, dismesso nel luglio 2013 e aperto in occasione delle giornate Fai, ricordi e memorie, ne hanno parecchie. Perché ogni parete, mattonella, finestra, sbarra, sono intrise delle proiezioni, delle vite, degli sguardi di chi, sotto quel cielo di cemento, ha trascorso anni immobili, senza angoli né prospettive, abbracciando, forse, solo i sentimenti seminati e lasciati “fuori”.

Così, accanto a questa comunità confinata intessuta dai tecnicismi dei meccanismi difensivi e adattivi alla vita carceraria, all’anestesia emotiva della “sindrome di congelamento”, alla prisonizzazione, alla descrizione fisica della struttura carceraria secondo lo schema panoptico di Bentham, ecco che su un muro, terzo braccio, vicino a una finestra le cui sbarre affettano l’esterno, c’è una scritta, semplice, a mo’ di indirizzo: “via delle stelle”, contrapposta, dualismo ancora una volta, alla “via delle stalle” che segna il ritorno al braccio. Toponomastica di una città invisibile, di un microcosmo in cui si snodano parenti in visita, avvocati, guardie, agenti, detenuti.

Spazi fisici, tutti a vista, muri e colori scrostati che hanno contenuto spezi interiori, uomini. Non è questa l’occasione per una disamina del concetto di pena e del suo fine, questa è solo la descrizione di ritagli di giornale e santini attaccati alla buona sui muri, di moderni palimsesti di lombrosiana memoria scritti alle pareti, come il dantesco «lasciate ogni speranza oh voi che entrate», vergato e ripassato più volte, in stampatello, con il colore verde. E poi date, pistole, imprecazioni, messaggi d’amore, il nome del proprio paese, Buddusò, quattromila anime nella provincia di Olbia Tempio, e lo schizzo delle indicazioni stradali per arrivarvi, chissà, forse per sentire di appartenere ancora a qualcosa, avere una storia da ricostruire, una vita da riprendere.

carcere di San Sebastiano2Sono passati centocinquanta anni da quando l’archittetto astigiano Giuseppe Polani assunse l’incarico per la progettazione del carcere sassarese sulla base del concorso bandito dal ministero dell’Interno, per il quale si occupò anche delle strutture di Torino, Perugia e Genova, salvo poi, per il rimorso, pare essersi suicidato. È grazie all’architetto Sandro Roggio se oggi sappiamo qualcosa su questa struttura, che prende il nome da una chiesa, sconsacrata e poi demolita, che si ergeva nell’area del carcere, e dedicata, appunto, a San Sebastiano. Sempre per Roggio, sappiamo che Polani è stato a Sassari solo una volta dopo l’assegnazione dell’incarico, trattenendosi giusto per il tempo necessario ad accertare lo stato dei luoghi, la disponibilità e i costi dei materiali. E sono alcuni documenti nell’Archivio della Camera dei deputati, a descrivere un contrattempo nella fase esecutiva, quando, nel 1863, i lavori si arrestarono per una verifica richiesta dal responsabile del cantiere che ritiene la pietra prevista troppo tenera, per cui, d’accordo con l’appaltatore, si decise di utilizzarne una più dura, con la spesa che lievitò di quasi quattrocentomila lire.

Centocinquanta anni di vita e otto mesi da quando i detenuti sono stati trasferiti. Otto mesi di tempo cristallizzato, congelato nelle celle vuote, nei gessetti colorati, nelle circolari che ricordano i giorni in cui si effettua il cambio delle lenzuola o è disponibile il barbiere. Bottiglie di plastica impolverate tra sbarre e finestre, lenzuola accatastate in lavanderia, un biliardino abbandonato sotto una tettoia, con gli ometti immobili nella loro ultima azione.

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