Giuliano Compagno
Un romanzo "politico" fuori dal coro

Gioventù perdute

Con "Vittoria" Annalisa Terranova racconta la formazione di un'adolescente di destra nella Roma Anni Settanta. Ma i sogni falliti sono quelli di una generazione intera

Tra i romanzi politici degli ultimi trent’anni, Vittoria di Annalisa Terranova (Giubilei Regnani, pp. 230, € 16) resterà nella memoria ben oltre le intenzioni dell’Autrice. Al cuore dello scritto vi era, in origine, il raccoglimento di una figlia dinanzi al commiato materno. Il sipario di una cronaca famigliare si abbassava per l’ultima volta, e Vittoria aveva deciso di proseguire quel diario iniziato in forma di terapia, per riempire le assenze della mamma, il suo oblio. Figlia di un conservatore un po’ nostalgico, che l’autorità e la dolcezza sapeva metterle assieme per le sue bimbe, Vittoria era cresciuta nell’ambiente piccolo borghese di ponte Marconi, a Roma, le cui adiacenze, negli anni Cinquanta e Sessanta, erano state abusivamente edificate in luogo di industrie e di raffinerie dismesse. Lei vi era nata nel 1962, tra viali pieni di botteghe e baretti, in una Roma che si agganciava alla carrozza di un benessere appena accennato, Vittoria e i ristretti orizzonti che allora si concedevano a una femminuccia, a parte un futuro assicurato di sposa, di madre e di solitudine.

Eppure, il passaggio all’adolescenza parrebbe inavvertito se a liberarla non contribuisse la “politica”. Quella da ginnasiali, lo sporgersi inconsapevole da un trincea o dall’altra, frutto di scelte a cui, per lo più, contribuiranno ragioni meccaniche: l’appartenenza a una massa preponderante o, dall’altra, l’adesione a un popolo minoritario (rapporto uno a venti o giù di lì); il dar seguito a una tradizione e a una storia famigliari o, dall’altra, la ribellione nei confronti delle proprie ascendenze borghesi e conformiste; infine l’immergersi nell’una esperienza estetica o nella sua opposta, in un continuo movimento di coesione e di separazione dei soggetti in campo. I segni e i simboli di appartenenza stavano lì a sventolare quali infiniti vessilli comuni, fossero stati un eskimo o un loden, un occhiale o una sciarpona, una stella o una croce, una falce o un’ascia. E i ragionamenti subito mutavano in slogan acefali, come se a ripeterli fossero migliaia di coscienze indiscernibili l’una dall’altra, in un crescendo di tale enfasi da smarrire, non soltanto le proprie convinzioni ideologiche ma persino le sedicenti ragioni dell’avversario, la sua fisionomia critica. Funzionava così, eccezion fatta per il raro sottrarsi di chi si asserragliava in un minuscolo universo privato, tutti noi appartenevamo al mondo della violenza “positiva”, negatrice della violenza assertiva del potere costituito, di una violenza in virtù della quale si cercava di riconquistare la propria relazione estetica con il mondo. Ormai lo sanno bene tutti, che la leva di spinta era stata giusta, quando a Valle Giulia l’unione aveva giustificato l’erompere incontrollato di una rottura dialettica con la violenza del potere. Da cui la reazione di esso, il dividere a morte ragazzi contro ragazzi per attaccarli tutti, indeboliti.

vittoria annalisa terranovaE allora la necessaria bellezza di Vittoria sta nell’averci raccontato, attraverso i singoli gesti di una generazione di esordienti e di innocenti, la progressiva perdita di contatto, da una parte e dall’altra, tra aggressori e vittime, nemmeno più individuate e additate in base alle categorie di amico e di nemico, bensì semplicemente “contate”, in un crescendo virtuosistico di prodezze che puntava alla soppressione caotica delle regole e all’infinita apertura dell’originario campo di battaglia. Vittoria è poco più di una bambina quando si affaccia a quel noioso mondo uniformato di un liceo romano, dove quasi tutti recitano il medesimo copione, già allora consumato e di lì a poco “fuori catalogo”. È un palcoscenico che ogni mattina viene allestito alla periferia del mondo reale, i cui attori non credono più ai ruoli che vanno recitando, né tanto meno alla tragedia collettiva che stanno per compiere, ciascuno camminando sul ciglio di un sentiero che non li porterà da nessuna parte, se non al di fuori di loro stessi. Al suo biennio iniziatico Vittoria accede con la ritrosia di una ragazzina che soprattutto vorrebbe essere lasciata in pace insieme agli affetti e alle piccole emozioni che non intende tradire per nessun motivo. Sicché resiste alle allusioni, alle promesse e ai cenni di intesa che quell’altro mondo, ammiccante e comunque ostile, le lancia a mo’ di esca, nella scontata ventura del suo abbocco. Che non avverrà. Nonostante tutti i riti di umiliazione vengano officiati e subiti dalla vittima predestinata, capro espiatorio di un impossibile rifiuto: le fogne e le gogne di un mondaccio che ha ormai perduto la rosea bellezza della prima rivolta e si è omologato in un’area di transito, dalle cui due uniche uscite rifluirà verso la vita/morte clandestina o verso il reinserimento nella società post-ideologica (nel potere di fine secolo insomma).

Il destino di Vittoria è inevitabilmente diverso. L’eccidio di Acca Larentia la risveglia dal sogno di una militanza conciliata, tra i giovani rintanati nelle sezioni e i supremi rappresentanti di tutto quell’armamentario post-bellico, tra la deriva spontaneista e il coraggio quotidiano di rischiarsela. Valse per tutti, siamo sinceri, per quelli e per questi, per i Verbano come per i Mattei, per Stefano, l’amico di Vittoria, freddato dai carabinieri come per Giorgiana, giustiziata dalla polizia in borghese. E vale per tutti questo eccellente romanzo mai sporcato dalla retorica di una falsa autenticità, un libro che commuove e che Annalisa Terranova ha licenziato a mo‘ di addio da una stagione tramontata da qualche decennio, nonostante la bieca finzione di chi ancora, sulla carne viva di quel passato, prova a rifarsi i documenti. Perché il passato può ben meritare che lo si narri, e appena scritta la parola “fine” aprire altri libri, aspettare un nuovo sole, abbracciare quel nemico fattosi grande, e i suoi figli, e insieme rispettare un silenzio e un vuoto, quelli sì comuni, quelli sì.

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