Domenico Calcaterra
Un libro pubblicato da Nutrimenti

Fine dell’Occidente

"La caduta", il discusso romanzo di Giovanni Cocco, è una riflessione (in puro stile postmodern novel) sulla caducità del modello occidentale: da Katrina a Utøja. Passando per le banlieue d'Europa

Per comprendere La caduta di Giovanni Cocco (Nutrimenti, 224 pagine, 16 euro) bisognerà partire dai paratesti d’accompagnamento – l’Avvertenza e la esplicativa Nota al testo – manifesti, entrambi, di un’intenzione precisa, di una poetica e di un progetto narrativo definito. L’ambizione dello scrittore (tutto sommato, possiamo anticipare, andata in porto) era quella di produrre un esempio di postmodern novel in lingua italiana. Un libro costruitissimo che ricorre a un fitto armamentario di rimandi strutturali e simbolici: dalla scansione delle storie sulla falsariga di citazioni tratte dal testo biblico al diretto richiamo (sul piano dell’organizzazione compositiva) a celebri cicli pittorici del Quattro e Cinquecento, come quelli del Mantegna e del Foppa. Libro che, per le ricercate rispondenze tra le singole parti e l’evidente numerologia di riferimento, aspira si potrebbe dire a un che di paradigmatico.

GiovanniCocco_LaCadutaCocco è spinto dall’ossessione che, da sempre, a ogni latitudine e in ogni tempo, non smette di abitare gli scrittori: raccontare la propria contemporaneità, che equivale a dire, poi, raccontare il romanzo dell’Uomo; e raccontarlo, collaudato espediente romanzesco, attraverso il filtro dell’infanzia e dell’adolescenza. In realtà, La caduta rappresenta soltanto il primo di quattro episodi in cui è articolato Genesi, un’opera di più ampio e ambizioso respiro, concepita (precisa l’autore) come «vero e proprio work in progress». Secondo uno sguardo che tenga conto – altro riferimento esplicito – dei concetti di longue durée e di histoire à part entière, cari agli intellettuali delle Annales. Da una così altisonante dichiarazione d’intenti, non facciamo fatica a capire come la preoccupazione forte, da parte di Cocco, sia il distanziarsi da tanta narrativa di consumo, facendosi portavoce di un’idea slow della letteratura.

giovanni coccoLa Parigi delle banlieue, le bombe nella subway londinese, il deserto d’acqua di New Orleans dopo il grande uragano, il tranquillo isolotto di Utøja, in Norvegia, nel momento in cui viene sconvolto dalla follia omicida di un uomo vestito da poliziotto, sono questi alcuni degli scenari. È una rapsodia di luoghi e destini sintomatici, chiamati a rappresentare il declino e la dissoluzione dell’Occidente, disegnando quel paesaggio di rovine al quale sembra sempre più somigliare lo skyline del Terzo millennio. Anche espulse dall’involucro che funge da collante, le storie mantengono intatte la loro forza e coerenza di dettato (notevoli, tra le altre, quella ambientata in una New Orleans surreale trasformata dal passaggio di Katrina e quella che affonda nei buchi neri del cosmo napoletano). Solo a livello superficiale possiamo considerare La caduta come il romanzo apocalittico della tragedia che s’incista – ancora una volta – nella Storia. Giulio Mozzi parla, evidentemente, di «romanzo biblico», innervato sull’ampio respiro offerto dal rimando all’epos delle Sacre Scritture. Forse ciò non basta a definirlo. Cocco è scrittore che parte dalla storia per arrivare all’esistenza: si addentra in un poco consolante sottosuolo, sbalza figure di destino impegnate (tutta la vita) a misurare la distanza tra voler essere e dover volere; per scoprire che «non siamo che particelle invisibili di un disegno ben più complesso».

Ritroviamo, insomma, quell’identico sentimento già messo in romanzo nelle “biografie infedeli” di Davide Orecchio con le sue Città distrutte (Gaffi, 2012): scavare nella ferita inferta dalla storia, lì dove il trauma si fa infezione, può diventare cultura. Lasciandoci intuire come quel dato di cultura sia infine riconducibile alla nostra stessa biologia. Tuttavia è la parentela di risvolti (certo più tematici che di trama) con un altro romanzo – Cacciatori di frodo (Miraggi, 2012) di Alessandro Cinquegrani –, a suggerire come il libro di Giovanni Cocco appartenga alla versione (aggiornata) di un narrare se vogliamo archetipico (che ha ripreso piede proprio negli ultimi anni), quello dello smarrimento esistenziale innalzato a irrefutabile dato antropologico, della stretta tra colpa e redenzione, che rimanda a un senso di responsabilità (in ciò la dominante etica del romanzo) sempre e comunque, «per definizione», individuale. E puntellato da domande radicali: «fino a che punto può spingersi la volontà degli uomini? Dove inizia il male? In quale preciso istante un uomo sceglie deliberatamente di compiere un crimine?»… Sono questi gli interrogativi che spirano sull’arcipelago di vite attraverso le quali Cocco s’impegna a riedificare il romanzo: nugolo di esistenze, “ablativi assoluti” slegati dal resto, a restituire sacralità allo stare al mondo di ognuno.

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