Vincenzo Faccioli Pintozzi
“L'atto, la storia” di Giancarlo Ricci

E Benedetto salvò il XX secolo

La rinuncia di un Papa che non solo non è rinunciatario, ma che accetta di farsi “zolla sotto le zampe di bisonti”, è il momento fondante del nostro tempo. Più delle Torri gemelle, più del Muro di Berlino. Perché ci ha consegnato la possibilità catartica di fermarci. Per poi ripartire...

L’immagine più bella è quella di un Papa, considerato dal mondo laico e cattolico uno dei “potenti della Terra”, che si fa zolla. Zolla che viene calpestata da una mandria di bisonti, ovvero coloro che «del loro ottuso scempio fanno notizia». Giancarlo Ricci usa una metafora di Blake, citando anche l’ottimo Roberto Mussapi, per dare forza all’atto fondante che ha chiuso il secolo scorso e ha aperto la porta non solo all’elezione di un nuovo Papa ma a una sorta di catarsi collettiva. Ovvero la rinuncia di Benedetto XVI, che lo psicanalista ha analizzato ne L’atto, la storia. Sono 88 pagine densissime – e in questo caso è un complimento – edite dalla San Paolo, che guardano con occhio clinico al momento in cui il pontefice tedesco ha annunciato di volersi ritirare dallo sguardo del mondo.

Nel testo, Ricci sostiene che a lanciare la scrittura sia stata la lettura dei commenti – migliaia, da ogni parte del mondo – che cercavano di dare un senso alla rinuncia del pontefice. «Qualcosa strideva – scrive all’inizio – e mi convincevo sempre più che l’indugiare su aspetti personalistici (la stanchezza, la fatica, l’età) fosse un modo per sviare e soffocare altre considerazioni ben più sostanziali e rilevanti. Avvertivo insomma il tentativo di spegnere un’istanza forte e potente, quella che si concretizzava mediante un atto, che credo abbia voluto gettare uno sguardo differente e radicale su questa nostra contemporaneità tanto devastata. Non solo: l’atto di Benedetto mi sembrava contenere una forza sovrumana. Quasi un monito, un grido: vi accorgete cosa sta accadendo attorno a voi?».

Da qui la decisione di trasformare lo “stridio” in un momento di riflessione, di analisi. Anche perché, e questo è uno dei concetti chiave del libro – «la croce è tutt’altro che ostentazione, ma nell’attuale società pare che non possa esistere sofferenza o dolore senza spettacolo. Oggi viene enfatizzata l’equazione fra dolore e rappresentazione, quasi a incoraggiare l’estremismo del martirio».

Per Ricci tutto questo non ha affatto le caratteristiche di una rinuncia, ma di un atto – anche psicanalitico – estremamente più importante e più fecondo. L’11 febbraio 2013 diventa “di più” rispetto al crollo del Muro di Berlino o a quello delle Twin Towers: diventa appunto il “momento per concludere” di un pontificato che la storia avrà forse la capacità di leggere come “un tempo per comprendere”. D’altra parte, chi scrive ha la ferma convinzione che i quasi otto anni di Benedetto XVI sulla Cattedra di Pietro saranno rivalutati dalla storia e dalla società. E Ricci dà le motivazioni di questa convinzione.

Non sarebbe onesto riassumere in poche righe quello che l’autore di L’atto, la storia spiega in maniera esemplare nelle sue pagine. Anche perché questo è un libro da meditare, su cui tornare, da “masticare” con la calma che il Papa emerito ha riportato in essere come valore supremo. Ma è più che onesto sottoscrivere le conclusioni del libro e il suo senso di base: «Benedetto XVI ha chiesto di fare i conti con il secolo precedente e con la sua ingombrante eredità». Ora tocca a Francesco che, almeno da quanto visto sino a qui, sembra essere l’erede naturale di colui che ha chiuso un’era per dare respiro a una nuova.

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