Adriano Mazzoletti
Una proposta controcorrente per il Jazz

Aboliamo i festival

Siamo sicuri che servano ancora a qualcosa? Di jazzistico hanno ormai davvero poco, sembrano piuttosto un'accozzaglia di generi messi insieme per riempire le sale e ottenere sovvenzioni pubbliche. Forse sarebbe l'ora di sostituirli con stagioni di concerti a cadenza regolare, come avviene per la musica accademica

Pochi giorni fa si è chiuso un festival del jazz, quello di Roma e fra poche settimane se ne aprirà un altro, quello invernale di Orvieto. Nel frattempo è in pieno svolgimento quello di Moncalieri, senza poi parlare di quelli estivi ancora vivi nella memoria. Troppi forse e forse molto simili fra loro, oltre al fatto che in questi festival del jazz, di jazz autentico se ne ascolta davvero poco. Può venire dunque il sospetto che dopo sessantacinque anni – il primo risale al 1948 – i festival abbiano fatto il loro tempo e dovrebbero andare in pensione. Quando assistevo ad alcuni concerti del Roma Jazz Festival, che si è svolto in gran parte all’Auditorium Parco della Musica di Roma, mi affiorava alla mente quanto mi aveva detto qualche anno fa Alberto Alberti, uno dei grandi promoter del jazz italiano fra gli anni Sessanta e Ottanta.

«I festival oggi non sono più quelli di ieri. Mentre una volta era una occasione di stimoli, di confronti, di scontri, di ascolti, di scoperte. Umbria Jazz che è stata importante, dal punto di vista della divulgazione, dell’aggregazione, è stata anche l’inizio della catastrofe, l’inizio del “tutto va bene”. I veri artisti jazz oggi saranno circa il 20%. A questo proposito Cocciante invitato nel ’96 è emblematico. Poi molti hanno seguito l’esempio. Oggi i veri appassionati di jazz non vanno più ai festival, l’hanno disertati. Ci vanno persone che nel nome del jazz, che il più delle volte non conoscono, vogliono divertirsi, incontrare gente, fare una piccola vacanza cultural-musicale (quando al nome del festival si aggiunge la parola jazz c’è sempre la connotazione “cultural-musicale” così lo Stato paga) che è sempre meglio di una piccola vacanza senza niente. Penso che buona parte del declino qualitativo dei festival sia dovuta al fatto che in questi ultimi anni si è creata una grande confusione fatta per riempire stadi e piazze a disdoro del jazz che è una forma d’Arte e non semplice musica di consumo. Il grande problema dei festival del jazz è che sono un ammasso informe di proposte musicali e che sono rimasti in pochi ad aver rispetto per la musica. Una volta c’erano i poeti, gli intellettuali a interessarsi al jazz. Oggi sono una rarità o forse sono io che non li vedo più».

Le parole di Alberto Alberto, tipiche di un uomo profondamente deluso, si riferivano ai grandi festival. A quello a cui ho assistito recentemente, nato da una idea interessante – jazz e letteratura – non sono stati purtroppo molti i concerti che avevano una valenza jazz. Posso citare quello di Joshua Redman con un Paolo Rossi, per altri versi geniale intrattenitore, in questa occasione totalmente fuori contesto, oppure la Mingus Dynasty, il gruppo di Avishai Cohen e quello del trio del pianista indiano Vijay Lyer, a cui forse sarebbe stato utile consigliare un tipo di programma leggermente diverso da quello presentato: tre soli brani, simili fra loro, in novanta minuti.

Penso che i direttori artistici, oltre a scegliere gli artisti, servano anche a suggerire, proporre, variare e a volte correggere ciò che viene proposto dagli artisti stessi. L’unico concerto in sintonia con il tema del festival, jazz e letteratura appunto, è stato quello di Amiri Baraka (Leroy Jones), uno dei maggiori poeti afro-americani che ha letto, per tutta la durata del concerto stesso accompagnato dall’eccellente René McLean, suoi poemi come Somebody Blew Up America?, The Book of Monk e brani tratti dai suoi libri, tutti di grande interesse. Ma l’accento newyokese, qualche parola di slang, qualche frase idiomatica e il tutto, a tratti, coperto dalla batteria di Pheeroan ak Laff, facevano malauguratamente perdere parti importanti delle sue opere. Perché allora non aver pensato, facendosi dare in anticipo i testi, di proiettare la traduzione italiana su un paio di schermi?

Fra qualche settimana dicevo inizierà a Orvieto Umbria Jazz Winter, su cui torneremo su queste pagine. Tornando ai festival del jazz, soprattutto quelli che hanno luogo nelle grandi città, sovvenzionati dal Ministero per i Beni e le attività culturali e dalle amministrazioni cittadine, la proposta sarebbe di sostituirli e avviare annualmente stagioni di concerti jazz a cadenza regolare, come avviene per la musica accademica. Se ne avvantaggerebbero di certo la cultura musicale e forse anche la finanza pubblica.

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