Valentina Mezzacappa
Una scrittrice e un pittore

Agiografia della paura

Bisogna vivere fino in fondo le proprie ossessioni per superarle. Su questo "principio" si sono incrociati Mary Shelley, la madre di Frankenstein e Peter Greenaway, l'artista che messo in scena la luce dell'ansia

Appartenere al gentil sesso nel 1816, avere diciotto anni e scrivere uno dei più grandi romanzi del primo ottocento, Frankenstein. Gli eventi che hanno portato alla nascita della celebre opera di Mary Shelley, il cui protagonista è ormai da decenni insieme a Dracula e l’Uomo Lupo sinonimo di tutto ciò che è paura (non senza l’aiuto della Universal però), sono altrettanto conosciuti. Tanto da ispirare a loro volta romanzi, studi accademici e pellicole cinematografiche. È andata più o meno così: Mary è in vacanza sul Lago di Ginevra, con lei l’amante e ancora sconosciuto poeta Percy Bysshey Shelley, la sorellastra Claire Clairmont, il di lei amante Lord George Gordon Byron a quel tempo alle prese con la redazione di Childe Harold’s Pilgrimage e il medico e futuro autore de Il vampiro, John Polidori. Nonostante sia giugno, il tempo è un tiranno inclemente che imprigiona in casa la comitiva con interminabili giornate fredde e piovose. Percy, George, John e Mary decidono così di scrivere ognuno una «storia che sia basata su un avvenimento sovrannaturale». Due anni dopo in Inghilterra, Frankenstein o il moderno Prometeo viene pubblicato in tre volumi sebbene in forma anonima. Solo la seconda edizione, quella francese, vedrà il nome di Mary sulla copertina. A oggi si contano oltre duecentottanta ristampe del romanzo.

Per comprendere e apprezzare a pieno l’enormità della conquista letteraria di Mary Shelley è bene però fare un passo indietro e volgere per un breve istante l’attenzione verso le condizioni di vita delle donne del suo periodo. Siamo quasi alla fine di quel periodo storico conosciuto come rivoluzione industriale, iniziato intorno al 1760 e protrattosi fino al 1840, periodo durante il quale avvengono grandi cambiamenti che contribuiranno a determinare il futuro assetto economico e politico dell’Europa. La vita per una donna della classe lavoratrice è dettata da grandi fatiche fisiche, salari inferiori a quelli dei colleghi maschi con i quali lavora in fabbrica o in miniera, da malattie spesso dovute al disinteresse delle città in materia di provvedimenti sanitari per le zone povere in cui abita e maltrattamenti fisici di cui spesso sono responsabili mariti alienati da disumane condizioni lavorative e un malessere esistenziale annegato nell’alcool. I privilegi invece che caratterizzano l’esistenza delle donne appartenenti alla classe di Mary e a classi ancora più influenti e abbienti sono perlopiù formali. Queste, sono donne che vivono in gabbie dorate alle quali però poco è concesso. A loro è vietato l’accesso alle università e se sanno leggere, scrivere e magari suonare anche uno strumento è solo in virtù di quello che viene visto come il loro principale se non unico scopo nella vita: il matrimonio. La restrizione è ovunque, la negazione dell’indipendenza pure. Sotto le sete dei loro preziosi abiti indossano corsetti che limitano nei movimenti capaci anche di provocare danni fisici come la deformazione o lo spostamento degli organi e le regole che determinano la loro interazione con il mondo circostante sono numerose e complicate, quasi fossero le pedine di un gioco da tavolo crudele e insensato.

No, non abbiamo dimenticato nemmeno per un istante che Mary è nata Mary Wollstonecraft Godwin, figlia di una delle prime femministe della storia, la Mary Wollstonecraft di A Vindication of the Rights of Woman e del filosofo e poeta William Godwin e che genitori simili l’abbiano senza dubbio esposta ad un ambiente molto diverso da quello delle donne del suo tempo nonché ad un’educazione non ortodossa e ricca di stimoli. Ma i genitori, si sa, possono fino ad un certo punto, il resto del lavoro spetta ai figli e da questo possiamo solo trarre la conclusione che non sarebbe giusto sminuire l’opus di Mary in virtù dei suoi natali. Dai suoi carteggi emerge che una volta deciso di cimentarsi nella scrittura di una storia di fantasmi, una notte le capitò di vedere in sogno, o meglio in un incubo, un uomo molto simile a un fantasma prendere vita grazie ad una strana e inquietante macchina. Il sogno di Mary prova come la sua intelligenza creativa abbia, inizialmente in maniera subconscia per poi passare al conscio con la scrittura del romanzo, rielaborato gli insegnamenti scientifici del padre ma anche gli interessi del suo amante, il poeta Shelley. Oltre a quella del padre e del suo compagno, gli studiosi hanno a lungo dissertato sull’esistenza di altre influenze come quella della controversa figura del chirurgo londinese William Lawrence e degli esperimenti con l’elettricità di Giovanni Aldini che nel 1803 tentò di riportare in vita il cadavere di un galeotto.

Dal punto di vista scientifico il romanzo di Mary Shelley colpisce anche per la sua capacità di precorrere i tempi e lo fa con i capitoli riservati alla creatura, quando questa racconta al suo creatore la propria evoluzione. L’evoluzione della creatura dallo stato primario a quello astratto ricorda inevitabilmente la teoria dei bisogni di Maslow. Per non parlare dell’incontro di Victor con i suoi professori, il borioso Krempe che disdegna le sue letture e l’illuminato Waldman che invece riconosce lo zelo del giovane studente e gli fornisce gli strumenti per crescere empiricamente e intellettualmente.  Benché Camillo Golgi non abbia ancora apportato il suo prezioso contributo alla scienza con l’impregnazione cromoargentica delle cellule nervose (bisognerà infatti aspettare il 1873) e Bell abbia da poco scoperto la natura motoria dei nervi spinali anteriori e quella sensoriale di quelli posteriori, Mary Shelley riesce con ammirevole disinvoltura a calarsi nella scena scientifica del suo romanzo. E quando uno legge il dialogo fra il giovane Victor e l’insegnate Waldman non può trattenere la meraviglia e riconoscere in esso alcuni elementi che saranno in futuro presenti negli scritti di Khun, Condorcet e Popper.

La Shelley affronta anche un tema spinoso per la storia della ricerca scientifica, un tema che Cartesio ha saputo rendere appassionante con la sua distinzione fra Res Cogitans e Res Extensa, quello della sperimentazione su esemplari umani da sempre ostacolato dalla Chiesa. La posizione dell’autrice appare però ambigua, il suo protagonista effettua degli esperimenti su materiale umano al quale dona una nuova vita ma terrorizzato e disgustato dalle sue imprese rende la sua creatura orfana inaugurando un interminabile ciclo di violenza e punizioni che lo condanneranno ad un’esistenza volta fino all’ultimo respiro al dolore, alla sete di vendetta e al senso di colpa. Se da un lato la Shelley appare favorevole a una scienza capace di valicare i confini del suo tempo, all’indomani di tale superamento sembra far sua una posizione più reazionaria che si manifesta quando infligge al suo protagonista il dolore incommensurabile della perdita di un fratello bambino, di un migliore amico, di un padre e della donna amata. Il rapporto di Mary Shelley con la scienza sembra a tutti gli effetti un rapporto di amore e odio.

Ma se è un rapporto di amore e odio quello dell’autrice con la scienza, la stessa domanda sorge in merito al suo rapporto non solo con Victor Frankenstein ma anche il suo poeta amante. Sì, perché numerosi sono stati gli studiosi che si sono chiesti se il personaggio di Victor Frankenstein non sia basato su l’uomo in carne ed ossa che era Percy Bysshe Shelley. Leggendo il testo si ha addirittura il sospetto che la Shelley abbia dato a Victor caratteristiche controverse che erano di Percy come la dedizione totale verso tutto ciò che è astrazione intellettuale e un’insensibilità per l’emozioni di coloro in contrasto con le sue idee. Ancora più interessante il fatto che il personaggio del migliore amico di Victor, Clerval, sia non solo un alterego sulla pagina ma anche nella vita e che ci sia sempre di mezzo il poeta. Clerval è il portatore di valori positivi come il fatto che costui sia un poeta, che sia cresciuto leggendo poemi cavallereschi e che incarni una serie di caratteristiche come la capacità di amare e di essere responsabile per i suoi cari, quasi come se ella stesse proiettando su questo personaggio caratteristiche che vorrebbe fossero del suo amante.

Frankenstein è un romanzo complesso, dove i diversi livelli narrativi si alternano e si intrecciano fittamente senza mai risultare ingombranti e didascalici. Frankenstein è come la trama del tweed, è per dirlo in termini gestaltici è un’opera dove il tutto è più della somma delle singole parti.

Peter Greenaway è molto di più di un regista. È pittore, autore di installazioni, critico, romanziere, montatore e incurabile tassonomista. Nasce nel Galles nel 1942 e inizia il suo percorso educativo a Londra dove studia pittura. Il suo interesse per la settima arte arriva all’età di sedici anni quando vede Il settimo sigillo di Ingmar Bergman. Il primo cortometraggio, Death of Sentiment risale al 1962, ma prima che la sua carriera da cineasta prenda il via dovrà subire una bocciatura agli esami di ammissione del Royal College of Art dove vorrebbe studiare cinema, scriverà dei romanzi, farà l’illustratore, si occuperà di critica cinematografica e farà il montatore per il Central Office of Information. Questo suo ultimo impiego gli permette di realizzare alcuni cortometraggi dove fanno la loro prima comparsa alcuni di quei temi che definiranno la sua inconfondibile cinematografia. Tra questi Tree del 1966, incentrato su un albero spoglio immerso in un mondo di cemento vicino alla Royal Festival Hall.

The Baby of MaconLa cinematografia di Greenaway ci ha sopraffatto con la sua visionaria e barocca costruzione dell’immagine, ci ha scioccato con la violenza di sequenze come l’interminabile stupro di Julia Ormond in The Baby of Macon (scena resa ancora più inquietante dall’introduzione di un elemento ludico quale quello dei birilli usati per contare il numero di amplessi forzati, nella foto qui accanto), l’introiezione dell’iconografia religiosa o erotica tramite la messa in scena della fagocitazione di bambini e amanti, ha saputo costruire come è proprio dell’arte barocca grandiosi e complicati artifici capaci di suscitare la meraviglia più profonda, è ha reso ancora più sorprendente il suo personalissimo gusto per la narrazione visiva attraverso l’unione sapiente del suo occhio con l’orecchio di Nyman e Mertens. Ha giocato con l’acqua, con i numeri, con i doppi, con lo spazio, con la prospettiva, con se stesso e i suoi spettatori. E poi ha catalogato. Sempre. Ovunque. Facendo della sua ossessione per la tassonomia un’arte vera e propria.

Considerati i temi e l’epoca in cui è ambientato, uno non può fare a meno di chiedersi come sarebbe stato un adattamento di Frankestein firmato da Peter Greenaway. E anche se con ogni probabilità non lo sapremo mai possiamo sempre volgere la nostra attenzione verso la sua produzione artistica e più specificatamente verso i collage su cui ha lavorato all’inizio degli anni settanta. Il suo interesse per i collage deriva dalla scoperta di artisti come R.B. Kitaj, Scwitters (che scopre ancora adolescente) e di Braque. Il collage permette di utilizzare diverse forme di disegni e dipinti sullo stesso foglio di carta. Utilizzando frammenti dai colori intensi Greenaway riesce a legare insieme i diversi contenuti dell’opera. E come ci ricorda l’opera If Only Film Could Do the Same (Olio e collage su faesite, 1972) questa capacità di unità è prerogativa esclusiva di questa forma espressiva. Lo stesso, e Greenaway pare quasi dispiaciuto nell’affermarlo, non lo si può ottenere con il cinema dal quale ci si aspetta «…una continuità di contenuto e narrazione e non potremmo mai considerare la forma e il colore capaci di fornire coerenza».

Greenaway nei suoi collage fa ciò che Mary Shelley ha fatto con il suo romanzo, costruisce un’opera composta nella sua intima essenza da livelli ed elementi diversi tra loro ai quali riesce a conferire coesione visiva e concettuale. Come il Frankenstein della Shelley, i collage di Greenaway sono un tutto che è più della somma delle singole parti.

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